continua da: ADOLF
HITLER E L'ISOLA DEI MORTI DI BOECKLIN
(tratto
dalla collana «IL TERZO REICH», 21 volumi distribuiti
da HOBBY & WORK - tel. 0339.6284467)
«Prova di disegno
insufficiente. Non ammesso»: questo fu il
laconico giudizio con cui l'Accademia di Belle Arti di
Vienna respinse il diciottenne aspirante allievo Adolf
Hitler nel 1907.
Nondimeno, negli anni a venire le opere di questo artista
autodidatta trovarono un certo apprezzamento fra i
viennesi.
A partire dal 1910, infatti, Hitler si guadagnò da
vivere dipingendo. Dapprima produsse cartoline che
vendeva con l'aiuto di Reinhold Hanisch, un vagabondo
conosciuto in un dormitorio. Le cartoline vendevano
abbastanza bene, ma Hitler era un lavoratore discontinuo
e perciò riusciva appena a sbarcare il lunario.
Nel 1911, Hitler si sbarazzò di Hanisch e prese a
dipingere opere più impegnative che vendeva attraverso
due canali: i corniciai, che per consuetudine offrivano i
loro articoli completi di pitture, e certi mobilieri che
producevano divani, all'epoca molto in voga, con un
dipinto inserito nello schienale imbottito. Hitler
rifornì regolarmente di quadri questi artigiani fino al
1913, quando si trasferì a Monaco per sottrarsi al
servizio militare nell'Esercito austriaco. Nella capitale
bavarese Hitler vendette i suoi dipinti da sé, girando
di casa in casa, e si specializzò in riproduzioni
dell'Ufficio di Stato Civile che offriva come souvenir
alle coppie di sposi novelli all'uscita dell'edificio.
Allo scoppio della guerra, Hitler si arruolò
nell'Esercito tedesco, ma continuò a disegnare e a
dipingere anche al fronte, immortalando desolate immagini
di guerra.
Tuttavia non fu influenzato, dalle correnti artistiche
rivoluzionarie affermatesi all'inizio del ventesimo
secolo, e il suo stile pittorico fu rigidamente
conservativo. Essendo particolarmente interessato
all'architettura, si specializzò in paesaggi urbani,
spesso copiati da fotografie e figure.
Da: Adolf Hitler «LA
MIA VITA» Bompiani, 1942
(...) Una malattia mi venne
improvvisamente in aiuto, la quale decise in poche
settimane del mio avvenire e pose fine al lungo
conflitto. Una grave affezione polmonare consigliò a un
medico di proporre a mia madre di non lasciarmi mai, a
nessun patto, far vita d'ufficio. Per le stesse ragioni,
la frequentazione della scuola tecnica doveva venir
sospesa almeno per un anno. Ciò che avevo desiderato in
silenzio per tanto tempo, ciò per cui mi ero sempre
battuto, s'era fatto ora realtà, improvvisamente, quasi
da sé.
Sotto l'impressione della mia malattia, mia madre
accettò di togliermi più tardi dalla scuola tecnica, e
di lasciarmi frequentare l'Accademia.
Son questi i miei giorni più fortunati, che mi appaiono
oggi come un mirabile sogno; e non fu, difatti, che un
sogno. Due anni più tardi, la morte di mia madre segnò
la fine improvvisa di quei bei piani.
La sua morte fu la conclusione d'una lunga e dolorosa
malattia, che fin dall'inizio non aveva dato adito a
speranze di guarigione. Pure, quel colpo mi abbattè
terribilmente. Io avevo onorato mio padre, ma amavo mia
madre.
La necessità, una dura realtà, mi costrinsero a
prendere una rapida decisione. Il mediocre asse paterno
era stato in gran parte consumato per la malattia di mia
madre; la pensione da orfano, che mi spettava, non
bastava a farmi vivere; mi toccava dunque, in un modo o
nell'altro, guadagnarmi il pane.
Con una valigia piena di vestiti e di biancheria, con
un'indomita volontà nel cuore, partii per Vienna. Ciò
che era riuscito a mio padre 50 anni prima, speravo
anch'io di poterlo strappare dal destino ; anch'io volevo
diventare qualcuno, certo ma a nessun costo un
impiegato !
Come mia madre morì, il destino aveva in certo senso
già presa la sua decisione.
Già durante gli ultimi mesi della sua malattia, io ero
andato a Vienna a sostenervi gli esami di ammissione in
quella Accademia. Armato di un grosso rotolo di disegni,
mi ero accinto al gran viaggio, convinto di poter
sostenere facilmente tale esame, quasi giuocando. Alla
scuola tecnica io ero di gran lunga il miglior
disegnatore della mia classe, e da allora la mia abilità
si era enormemente perfezionata, talché ne andavo
orgoglioso, e speravo nel meglio.
Una sola ombra al quadro: il mio talento pittorico
sembrava sorpassato da quello pel disegno, specialmente
per ciò che riguardava l'architettura. In compenso, il
mio interesse per l'architettura ne riusciva aumentato;
e anche stimolato, da quando avevo potuto, e non avevo
ancora sedici anni, recarmi per la prima volta a Vienna
per due settimane. Vi ero andato per visitare la Galleria
di quadri del museo di Corte, ma la mia attenzione si era
rivolta quasi esclusivamente al museo stesso. Dalla
mattina presto fino a notte io correvo da un museo all'altro,
ma eran quasi sempre i palazzi che mi attiravano a tutta
prima. Ero capace di passare delle ore davanti all'Opera
o davanti al Parlamento; e il Ring agiva su di me come un
incantamento delle Mille e una Notte.
Adesso mi trovavo per la seconda volta nella bella
città, e aspettavo con focosa impazienza il risultato
del mio esame. Ero talmente convinto del successo, che la
bocciatura mi colpì come un fulmine a ciel sereno. Ma
era proprio così. Come mi presentai al Rettore e gli
chiesi di chiarirmi i motivi della mia bocciatura, quel
signore mi assicurò che dai disegni che avevo presentato
risultava con ogni evidenza che non ero assolutamente
adatto a fare il pittore, ma che il mio talento mi portava
piuttosto verso il campo dell'architettura ; non c'era
per me altra prospettiva che la scuola di architettura
dell'Accademia stessa; ma in nessun caso quella di
pittura. E gli riuscì naturalmente incomprensibile che
io non avessi mai frequentato dei corsi d'architettura...
Completamente abbattuto, abbandonai il bel palazzo di
Piazza Schiller; per la prima volta, in vita mia, in
disaccordo con me stesso. Ciò che io avevo udito a
proposito delle mie capacità mi parve gettare
improvvisamente una luce cruda su un contrasto interno, a
cagion del quale io avevo a lungo sofferto, senza
riuscire a farmene una chiara ragione. Ma in pochi giorni
intuii che la mia vocazione era appunto l'architettura.
Certo, questa nuova via era molto difficile, poiché
proprio ciò che per dispetto io avevo trascurato alla
scuola tecnica, mi si faceva ora necessario. L'ammissione
nella scuola d'architettura presupponeva la licenza della
sezione architettonica della scuola tecnica; ma l'entrata
in questa esigeva la licenza di una scuola media. Tutto
ciò mi mancava completamente. A viste umane,
l'adempimento del mio bel sogno d'arte non era più
possibile.
Quando poi, dopo la morte di mia madre, giunsi a Vienna
per la terza volta, e stavolta coll'intenzione di starci
molti anni, calma e decisione avevan seguito a quel grave
colpo. E mi era tornata quella mia caparbietà infantile;
e davanti ai miei occhi stava ormai definito il mio
scopo. Volevo diventare architetto, e rifiutavo di
ammettere ostacoli, davanti ai quali dovessi capitolare.
Tali ostacoli io li avrei spezzati, avendo sempre davanti
agli occhi l'immagine di mio padre, che da povero ragazzo
di villaggio era riuscito a diventare impiegato di Stato.
La mia situazione mi appariva migliore della sua, il
terreno di lotta più favorevole; e ciò che allora mi
sembrò durezza di destino, lo apprezzo oggi come
saviezza provvidenziale. Ogni volta che la dea necessità
mi prese nelle sue braccia e minacciò di stritolarmi,
crebbe del pari la mia volontà di resistenza, e la mia
volontà seppe vincere.
E' proprio questo che io devo a quel tempo; di esser
diventato duro, di saper essere duro. E ancor più io
ringrazio il bisogno, perché mi strappò dalla vacuità
di una esistenza tranquilla, dalle braccia della mamma, e
fece della nera cura la mia nuova madre, gettandomi nel
mondo della povertà, della miseria, e portandomi a
contatto delle cose, per le quali più tardi io dovevo
lottare...
In quel tempo gli occhi mi si aprirono in faccia a due
pericoli che fino allora non avevo conosciuto neanche di
nome, e di cui ad ogni modo non capivo la spaventevole
importanza per l'esistenza del popolo tedesco: marxismo
e semitismo.
Vienna, la città che a molti sembra l'ideale della gioia
innocente, la residenza di gente felice, rappresenta per
me il ricordo vivente del tempo più triste della mia
vita.
Ancora oggi questa città risveglia in me soltanto grigi
pensieri. Il suo nome solo evoca, per me, cinque anni di
miseria e di desolazione. Cinque anni durante
i quali dovetti guadagnarmi il pane come operaio
avventizio e più tardi come misero pittore: un pane
scarso, che non bastava mai a sfamarmi. La fame fu in
quel tempo la mia fedele compagna, che non mi abbandonò
mai, che divise con me ogni cosa. Ogni libro che compravo
premetteva la sua collaborazione; una serata all'Opera le
conferiva il diritto di tenermi poi compagnia per
parecchi giorni; la mia esistenza era una lotta continua
con questa mia spietata amica. Eppure, proprio in quegli
anni, ho imparato più cose che mai prima di allora.
Oltre all'architettura, oltre a qualche serata all'Opera,
pagata con una economia all'osso, la mia unica gioia
erano i libri.
Io lessi, in quel periodo, enormemente, e anche
profondamente. Il tempo libero dal lavoro lo passavo
studiando. E in pochi anni raccolsi il capitale di
scienza, di cui vivo tuttora. Ma c'è di più.
In quel tempo si formò in me una visione del mondo e
della vita, che è diventata il fondamento granitico
della mia attività odierna. Nè mi toccò di aggiunger
poi gran cosa a quello che avevo accumulato allora; nè
mai dovetti mutarne anche una briciola. Al contrario.
Io credo oggi fermamente che i pensieri creatori ci
appaiono già nella giovinezza, fin dove naturalmente un
uomo ne possieda. Io distinguo la saviezza dell'età
matura, che non è se non prudenza e assennatezza, quale
risultato dell'esperienza di una lunga vita, dalla
genialità della gioventù, che suscita inesauribilmente
pensieri e idee, senza che neppure si possano elaborare,
proprio a cagione della loro abbondanza. Essa ci fornisce
i materiali, i piani d'avvenire, da cui l'età più
saggia ricava le pietre e costruisce la casa; e ciò
nella misura secondo cui la saviezza dell'età matura non
ha soffocato la genialità giovanile.
La vita che avevo condotta nella casa paterna, non si
distingueva da quella dell'altra gente. Io potevo
aspettare allora il nuovo giorno senza ansia alcuna, nè
esisteva per me un problema sociale. Le amicizie della
mia gioventù venivano dalla cerchia della piccola
borghesia, cioè da un mondo che non ha quasi rapporti
coll'operaio manuale. Per quanto bizzarra la cosa possa
apparire a prima vista, sta di fatto che l'abisso tra
quella classe, tutt'altro che economicamente pròspera, e
l'operaio della mano, è molto più profondo di quanto si
creda. La causa di tale inimicizia sta nella paura di una
categoria sociale, la quale da troppo poco tempo si è
elevata sul livello proletario, di ricascarci o di essere
ancora considerata come tale. A ciò si aggiunga il
ricordo amaro della miseria intellettuale della massa
operaia, la volgarità dei rapporti che vi regnano, per
cui la propria posizione, per mediocre che sia, fa
apparire come una insopportabile molestia l'idea di un
qualsiasi contatto con quello stadio sorpassato di
cultura e di vita.
Così avviene che è più facile a colui che sta in alto
scendere incontro al suo più lontano collega in
umanità, di quanto la cosa non riesca possibile ai
nuovissimi arrivati alla borghesia.
Arrivato è appunto colui che per forza propria è
riuscito ad alzarsi dal suo gradino di partenza ad uno
superiore. Ma accade spesso che questa dura battaglia
spenga in lui qualsiasi luce di compassione. La dura e
dolorosa lotta per resistenza uccide ogni pietà per la
miseria di coloro che son rimasti in basso. Da questo
punto di vista, il destino mi fu clemente. In quanto mi
obbligò a rituffarmi nel mondo della povertà e
dell'incertezza, che mio padre invece aveva abbandonato
nel corso della sua carriera, esso mi tolse i paraocchi
della gretta educazione piccolo borghese. Allora
finalmente imparai a conoscere gli uomini, a distinguere
la sostanza intima dalle mere apparenze o dalle
esteriorità brutali.
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