| LA MAGIA DELLE RUNE Tratto da: "The
        Unexplained - vol.10"EDIPEM - Novara
 È facile innamorarsi dell'antica
        Grecia e dell'Oriente classico. Pallade Atena e Dioniso,
        Apollo, Iside, Cibele e Afrodite non sono mai morti nella
        vecchia Europa, e hanno sempre avuto qualche devoto, nel
        corso dei secoli, grazie anche alle ideazioni artistiche
        che hanno più volte ispirato. Più arduo sentirsi in
        consonanza con le divinità scabre e corrucciate della
        mitologia nordica. Almeno così pare alla stragrande
        maggioranza di coloro che sono stati educati
        umanisticamente e soprattutto se di mentalità 'latina'.
        Eppure, come si è constatato nei precedenti servizi, il
        complesso di racconti che ha per protagonisti gli dei
        degli orizzonti settentrionali non manca di ragguardevoli
        significati simbolici. Per di più, la sopravvivenza
        nell'ambito folklorico di taluni usi e costumi sta a
        testimoniare che, nel profondo delle anime germaniche e
        scandinave, il retaggio pagano non è del tutto perduto.
        Sono tali la consacrazione della casa a una quercia o a
        un larice nelle zone rurali di Svezia e Norvegia, la
        divinazione praticata dalle giovani contadine danesi,
        contemplando la luna riflessa dalle acque di un ruscello,
        e il solenne e festoso corteo della Foresta Nera che, tra
        il 30 aprile e il primo maggio, celebra il risveglio
        della natura, portando in trionfo o fanciulle o fantocci
        rivestiti con rami e foglie. Qual è dunque lo spirito
        segreto della mitologia nordica e delle saghe che vi sono
        intimamente connesse? Non è nella letteratura, in senso
        stretto, che troveremo la giusta risposta, bensì in due
        componenti che si potrebbero paragonare alla linfa e ai
        fiori di un albero. Intendiamo riferirci al sacro
        alfabeto delle rune e alla 'lettura' del mito operata da
        Richard Wagner in chiave poetica e musicale, anzi
        melodrammaturgica. Sulle origini dei caratteri runici si
        possiedono due spiegazioni: l'una religiosa, l'altra
        profana. Secondo la prima, le rune furono ottenute da
        Odino (Wodan) a premio del massimo atto sacrificale:
        l'immolazione del dio a se stesso. Secondo quanto narra
        lo Havamal (II carme dell'alto Odino), nella parte
        maggiormente sapienziale, la misteriosa vicenda fu
        questa: Odino, desideroso di apprendere ogni forma di
        saggezza, accettò di essere appiccato all'albero del
        mondo (l'albero di cui nessuno sa "da quale radice
        si levi") e di pendervi per nove notti, ferito dalla
        propria lancia. Poté così "raccogliere le
        rune", apprendere dal gigante Bolthor (suo zio
        materno) i nove canti magici e nutrirsi dell'idromele, la
        bevanda che è in grado di suscitare il dono della
        poesia, in genere, e della profezia, in particolare.
        Molte le discussioni suscitate da questo racconto. V'è
        stato chi ha negato che Odino vi risulti protagonista di
        un vero e proprio processo di morte e risurrezione (lo Havamal
        precisa tuttavia che solo dopo essere sceso dall'albero e
        avere gustato l'idromele egli potè crescere in
        saggezza), sostenendosi che il suo dondolare da un albero
        per nove notti era quello di un 'appeso' e non di un
        'impiccato' (accettandosi codesta tesi, l'appiccato dei
        tarocchi acquisterebbe un significato tutto particolare)
        e v'è stato chi ha rilevato certe somiglianze 'formali'
        tra il sacrificio di Odino e la Passione patita sul
        Golgota. Sono tuttavia possibili alcune
        controsservazioni. Alla prima tesi, non priva di fascino,
        si dovranno opporre i tradizionali appellativi di Odino
        quale 'dio degli impiccati', 'signore delle forche' e
        'sovrano dei morti'. Alla seconda considerazione, in
        conseguenza della quale sarebbe più che giustificabile
        sostenere l'esistenza di un influsso cristiano sulla
        configurazione dell'autosacrificio di Odino, stante la
        datazione dello Havamal (il XII secolo d. C., in
        terra o norvegese o irlandese, ma comunque raccogliendo
        materiale più antico), si potrà contrapporre il rilievo
        secondo il quale, pur non escludendosi la possibilità
        che talune suggestioni cristiane ebbero bastante forza
        per infiltrarsi nel contesto del racconto pagano, resta
        il fatto innegabile che la connessione esistente tra il
        sacrificio mediante impiccagione e la conquista della
        capacità di tracciare caratteri e figure magici è tema
        che risuona anche in altri orizzonti pagani.Nell'ambito della grande
        raccolta di ballate epico-mitologiche finniche,
        conosciute sotto il nome di Kalevala, si narra,
        per esempio, che il gigante della vendetta Kullervo,
        quando era ancora bambino, dovette sopravvivere a vari
        tentativi di assassinio, commessi da un nemico della sua
        stirpe; il terzo di questi tentati omicidi avviene
        appunto mediante impiccagione a una robusta quercia, ma
        dopo tre giorni e tre notti ch'egli pende dall'albero:
        "No, non è morto no Kullervo / non è spirato sulla
        forca / Egli incide la quercia lavorando di punteruolo /
        e la quercia è tutta piena di disegni e di
        figure...". È dunque fuor di discussione che entro
        una prospettiva sacra e misterica la conquista delle rune
        da parte di Odino risponde a un paradigma ancestrale, è
        un frutto colto grazie a una concezione e a una pratica
        sacrificale che risalgono con ogni probabilità all'età
        sciamanica delle culture euroasiatiche. V'è da aggiungersi
        dell'altro: la grandiosità dell'immagine del dio che
        s'immola sull'albero del mondo è accresciuta proprio dal
        fatto che essa non ha carattere espiatorio né per il
        mondo né per lo stesso Odino, il quale continuerà a
        essere una divinità piuttosto amorale, ma sembrerebbe
        essere la condizione sine qua non perché poesia e
        veggenza divengano prerogativa degli dei e del mondo
        manifestato. E non è senza significato, inoltre, che
        poesia e invocazione magica paiono quasi confondersi
        l'una con l'altra, così come il carattere che
        concretizza la runa è, a un tempo, un segno fonetico e
        un ideogramma dai plurimi significati occulti.
        Ritorneremo su codesta duplicità. Per intanto, dobbiamo
        dar conto delle origini e dello sviluppo della scrittura
        runica, secondo quanto stabilito dalla paleografia e
        dalle altre discipline storiche e linguistiche. Oggi come
        oggi prevale l'ipotesi secondo la quale questo tipo di
        scrittura sarebbe nato nel 300 d. C. e nell'area
        nordoccidentale del Mar Nero, cioè a dire nella storica
        regione della Dacia. Si è altresì appurato che il
        periodo di fioritura e di massima diffusione può
        ascriversi ai secoli che vanno dal V all'XI d. C., per
        non parlare dell'estrema propaggine geografica, datata
        1362, ritrovata nel Minnesota (Stati Uniti) e la cui
        autenticità (recentemente provata da verifiche chimiche)
        sta a dimostrare la realtà dei viaggi compiuti dai
        Vichinghi dalla Groenlandia al Nuovo Mondo. Più discorde
        il giudizio degli specialisti a proposito delle
        ascendenze attribuibili alla serie delle 24 rune
        canoniche e delle cinque sovrannumerarie. V'è chi
        ipotizza infatti una derivazione dalla scrittura greca
        corsiva e dal latino di età imperiale, congiuntamente;
        altri propendono invece per una discendenza dagli
        alfabeti etruschi latinizzati e altri ancora ritengono
        che la nascita dei caratteri runici debba collocarsi o in
        Danimarca o nella Germania settentrionale e che sia
        avvenuta in maniera del tutto autonoma, rimanendo
        influenzata da greco e latino solo in una fase
        posteriore. È comunque certo che sono maggiori gli
        elementi di diversità tra l'alfabeto runico e quelli
        classici 'volgari' che non quelli di somiglianza: la
        scrittura procede da destra a sinistra, la sequenza
        comincia con la terna feoh, ur, thorn (f, u, t) e ogni
        lettera ha un corrispondente numerico e in base a criteri
        a prima vista incomprensibili: feoh è uguale a 24, ur a
        1 e così via. Il senso esoterico delle rune, la
        dimensione nascosta che esse racchiudono si disvelano
        purtuttavia di là dai giochetti numerici tanto cari agli
        occultisti. Innanzitutto, può rilevarsi che la serie
        canonica si proietta entro la fascia zodiacale a coppie
        per ciascun segno, principiando dal Sagittario, secondo
        un'accettabile ipotesi formulata da Elémire Zolla orsono
        14 anni (vedasi Conoscenza Religiosa, n° 2, anno
        1969), e muovendosi in senso retrogrado lungo lo Zodiaco,
        stante la necessità che ciascun segno solstiziale (le
        'porte del Sole') contenga il suo opposto: il Cancro si
        apparenta infatti alla runa del ghiaccio oltre che a
        quella del raccolto e il Capricorno manifesta 'il giorno'
        e 'la luce', quanto il senso opposto di 'recinzione' ed
        'esorcismo'. Un giuoco di polarità, il suddetto, tanto
        più significativo in quanto sta a indicare che laddove
        si sia capaci di guardare con intelligenza allo Zodiaco
        (cioè riconoscendolo come lo specchio degli archetipi,
        secondo l'insegnamento di Paracelso e Jung), ognuno dei
        suoi settori si rivelerà o con poteri 'coagulanti' o con
        qualità 'dissolventi', per dirla con i termini alchemici
        adoprati dallo stesso Zolla e facenti riferimento a
        processi che sono essenzialmente psichici e spirituali.
        Occorre aggiungere che tutto ciò suona a sottintesa, ma
        inequivoca condanna delle usuali tecniche oroscopiche? In seconda istanza, la
        scrittura runica lascia trasparire il potere che è
        racchiuso nelle sue lettere quando si consideri che, di
        là da certa magia 'spicciola', utilitaria, ciascuna di
        esse è l'effettivo custode, foneticamente e
        graficamente, di certi ritmi, fisici e vitali, a più
        livelli, entro e fuori la natura terrestre. Così è
        tramandato da certi insegnamenti riservati, non ancora
        contaminati dalla disvelazione e che tali debbono
        rimanere. Un paio delle più elementari dimostrazioni
        sono tuttavia esponibili. Si ricorderà allora, sotto il
        profilo della 'curiosità', che il numero canonico delle
        rune corrisponde al numero di 'tipi' di esseri viventi
        riconosciuti dalla moderna sistematica zoologica e che
        ogni runa presiede a un'ora del giorno o della notte; in
        prospettiva più simbolica, per converso, si potrà
        rilevare che i segni o fonemi sovrannumerari possono
        essere chiamati a rappresentare gli elementi perturbatori
        o 'miracolosi', gli interventi sovrannaturali o, per
        avverso, i fenomeni transitori o allucinatori. Dipende da
        molti fattori, come dalla qualificazione interiore di chi
        si è impossessato delle rune. Sia detto come fra
        parentesi: nella serie basilare che si è presa in esame
        le cinque rune supplementari sono costituite da ac, aesc,
        yr, ior, ear, in quanto ci si è riferiti agli
        arricchimenti grafici anglosassoni, ma altri caratteri
        possono aggiungersi o sostituire talune delle lettere, a
        seconda delle varianti ed esigenze linguistiche; nella
        stessa versione anglosassone, per esempio, l'alfabeto
        runico giunse a contare sino a trentatré segni. Non v'è
        da stupirsi di tanta fluttuazione, ciò che è arcaico è
        sempre soggetto alle pure leggi del ritmo, anche a
        livello psichico, perché non ancora 'cristallizzato',
        né del tutto crocifisso nella materia. Bene intese
        queste verità la grande intelligenza del cuore di
        Richard Wagner (1813-1883) nell'ideazione e realizzazione
        della Tetralogia, il ciclo in un 'Prologo' e 'Tre
        Giornate' che assomma e reinventa saghe e racconti del
        più lontano passato, ma che soprattutto penetra nella
        grande catena di regni della cosmogonia e del mito. Sotto
        tale profilo l'ondeggiante tema in si bemolle maggiore e
        in sei ottave con cui si apre la rappresentazione dell'Oro
        del Reno (il 'Prologo' della Tetralogia o Anello
        del Nibelungo) è qualcosa di più che un preludio:
        è la rappresentazione fonica del primo concretizzarsi
        del mondo e della vita, mentre il successivo frusciare
        delle figurazioni arpeggiate acquisisce invece, a poco a
        poco, un'impronta di stimolo visivo, come se non vi
        fossero più confini tra luce e suono. Analogamente, i
        successivi saluti delle tre ondine, prima alle acque e
        poi all'oro ch'esse custodiscono in fondo al fiume, sono
        ben altro che la descrizione di una situazione idillica,
        come potrebbe apparire di primo acchito, o un mero
        espediente teatrale. Per chi abbia bastanti conoscenze
        esoteriche, si è quivi in presenza dell'evocazione dello
        Stato dell'Esistenza anteriore alla caduta, quando ancora
        la Brama non aveva assunto alcuna maschera e non si era
        sollevata dalle Tenebre a concupire l'Eredità del Mondo.
        Siamo, come ciascuno può constatare, in una dimensione
        che nulla ha in comune con certe ricorrenti
        interpretazioni della Tetralogia. E che siffatte
        letture 'sociologiche' siano tanto presuntuose e
        pretestuose quanto aberranti è provato persino dalla
        più elementare delle constatazioni: nel concepimento e
        nella realizzazione dell 'Anello del Nibelungo
        Wagner estrasse più di un personaggio o di una
        situazione oltre che dall'Edda, francamente
        mitico, anche dal medievale Nibelungenlied (II
        canto dei Nibelunghi), ma evitando accuratamente
        qualsiasi riferimento che potesse inquadrare la vicenda
        in un orizzonte troppo delimitato; persino ne // Crepuscolo
        degli dei (l'ultima giornata della Tetralogia), laddove
        agiscono stirpi e comunità umane, uomini e donne
        appaiono circonfusi di bagliori epici e cavallereschi,
        piuttosto che storici o anche protostorici. Diremo di più: nella Tetralogia
        la componente umana, quando considerata collettivamente,
        è cieco strumento di rovina, solo contano le libere
        individualità di quanti operano a cavallo tra i mondi
        sovrassensibili e il mondo fisico: l'eroe Sigfrido,
        penetrato nel profondo dell'inconscio (la grotta del
        tesoro vegliata dal drago) e della Natura (il canto degli
        uccelli, il dominio sul fuoco) per conquistare infine la
        fanciulla celeste (la valchiria Brunilde) che è
        l'immagine speculare della sua anima, e Brunilde stessa,
        figura dell'Eterno Femminino, discesa sino agli uomini
        perché mossa dalla compassione (il tentativo di salvare
        coloro che avevano concepito l'eroe, Siegmund e
        Sieglinde). Sono
        tuttavia plurimi i significati racchiusi nella Tetralogia.
        I giganti, per esempio, vi simboleggiano le forze
        plasmatrici dell'Universo, istintuali o 'meccaniche'; i
        nani rappresentano le entità del sottosuolo od
        'occulte', sempre pronte a bisbigliare 'parole di potere'
        o sentimenti di bramosia; e gli dei che attendono essi
        stessi la redenzione, a costo di porre fine alla loro
        era, raffigurano la religiosità politeista nel suo
        insieme e i misteri che da essa promanano, sotto forme
        diverse, animando ogni aspetto della Natura: lo scuotersi
        degli alberi alle voci dei venti, il distendersi
        improvviso e rassicurante dell'arcobaleno dopo la
        tempesta, lo zampillare di una sorgente e il fiammeggiare
        di una meteora. Certo, la sacralità degli dei nordici
        poteva apparire troppo poco trascendente e troppo legata
        al cerimonialismo delle immolazioni e Wagner per primo ne
        cantò il giusto e apocalittico tramonto, convinto
        com'era che rappresentare il ritorno alle limpide acque
        dell'oro bastasse ad avviare il processo di redenzione e
        di trasfigurazione del Creato e dell'Uomo. E in tale
        prospettiva l'opera ultima, il Parsifal, non solo
        si connette al Tristano e Isotta, com'è fin
        troppo facile intuire, ma si lega anche al principio e
        alla conclusione dell' Anello del Nibelungo,
        riproponendone su più alto livello le caratteristiche di
        solare eroismo. Il castello dei custodi del Graal "in
        Monsalvat" non è forse un Walhalla costruito con la
        fede anziché con l'inganno (nella Tetralogia la
        roccaforte degli dei è edificata dai giganti, avendo
        essi ricevuto la promessa, che non sarà poi mantenuta,
        di ottenere da Wotan la dea dell'amore e della
        giovinezza)? E il Graal non è forse, nella sfera della
        spiritualità, un pericoloso tesoro nascosto, per chi lo
        accosti senza conoscerne gli intrinseci poteri di farmaco
        e di veleno? Sigfrido, Tristano, Parsifal sono tre
        personaggi diversi solo in apparenza. In realtà, ognuno
        di loro è il simbolo vivente di un determinato
        orientamento intellettivo. Per dirla in termini ermetico-alchemici: Sigfrido è il modello di
        chi è in grado di percorrere la via dritta e pericolosa
        e lungo la quale è facile cadere preda dell'inganno,
        come Sigfrido cade; Tristano è colui che s'appella
        all'interiorità emotiva, alla possibilità di risalire
        dalla carne all'Eros cosmico e percorre dunque il cammino
        tortuoso dell'esaltazione e trasmutazione della
        soggettività, come nella pratica delle arti; Parsifal, infine, è
        l'asceta contemplativo, colui che rinuncia anche alla
        Bellezza, perché viva in lui e attraverso di lui l'Atto
        di Adorazione: sua è la via regale. Una precisazione
        importante: ciascuno dei cammini suddetti, in taluni casi
        eccezionali, può sovrapporsi per qualche tempo agli
        altri due e in tal caso si avrà a che fare con
        altrettante tappe trasfiguratrici. Il vocabolo runa significa 'scrittura
        segreta', 'segno', 'scongiuro' e 'mistero'. Quattro
        definizioni che possono estendersi a tutte le opere della
        maturità di Wagner e alla Tetralogia in specie,
        poiché veramente i suoi 198 temi fondamentali si
        distendono nello spazio acustico con funzioni di
        rappresentazione, evocazione e incantesimo, con magia
        'runica', per l'appunto, e quando si sappia ascoltare.
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