Il leader libico con Stella Pende durante l'intervista concessa a «Panorama» PARLA MUAMMAR
GHEDDAFI di STELLA PENDE fotografie di PIGI CIPELLI Amsa'd (deserto del Sahara), 2/3 ottobre 2000 L'automobile corre nel buio da un'ora. Nessuno sa dove andiamo. Il silenzio nero del deserto è rotto solo da qualche lampeggio del mare che appare e scompare come una cartolina strappata. Lasciamo a cento chilometri Tobruk, piccolo porto libico che nell'ultima guerra è stato la sconfìtta del generale Erwin Rommel. Posto di blocco. Qualche minuto d'attesa e l'apparizione: d'improvviso davanti a noi: il Sahara è attraversato da un serpente luminoso di macchine che muove la coda dentro la strada ondulata. «È la fila delle auto per la frontiera con l'Egitto» mente uno degli accompagnatori, tenuto, come tutti, al pegno del silenzio. Una voce, un nome, cade come un sasso fra noi: «E' Gheddafi». «E' lui che si muove con i suoi Caravan e più di cento Toyota al seguito». «Gli ultimi in coda sono due pullman: il primo, immenso, è una casa viaggiante. L'altro porta i generatori». Per fare cosa? «Per illuminare la sua tenda. La pianta dovunque. A Tripoli in mezzo alle macerie della sua casa bombardata, in mezzo al deserto, davanti al mare. Sta andando in Egitto, al Cairo la farà montare dentro il parco dell'ambasciata. Lui non occupa mai piani interi di alberghi. Dorme solo sotto la tenda. Anche l'intervista la farete lì sotto». La voce aveva ragione. Oggi, davanti alla guerra del Medio Oriente e a quella del petrolio, davanti alla liberazione degli ostaggi francesi e al nuovo accordo firmato con l'Italia, un incontro con lui diventa sempre più importante e difficile. Forse impossibile. Invece, dopo un'attesa di un'ora nel comando di Amsa'ad, alla frontiera con l'Egitto, arriva il via. «È pronto». Tutti corrono. I libici hanno per il loro leader rispetto e paura. Entriamo da un cancello presidiato da guardie. Decine. Donne e uomini armati. Dopo il controllo, una tenda dai colori arlecchino. Muammar Gheddafi aspetta in piedi. Ha una camicia a onde verdi e marroni. Sulle spalle una casacca araba nera come gli occhi. Piccoli e brillanti. Lei ha detto: «Mi hanno accusato di essere contro la pace perché finanziavo i movimenti rivoluzionali di liberazione nel mondo. Oggi è tutto cambiato. Oggi è chiaro che avevo ragione io». Mi perdoni, colonnello, ma la Palestina che lei ha aiutato è praticamente in guerra con Israele. Niente sembra cambiato in Medio Oriente, niente finito. Andiamo con ordine. Per anni la comunità internazionale mi ha accusato di essere un terrorista. Oggi si rende conto che le cause che aiutavo erano legittime e che i capi dei movimenti che sostenevo sono diventati capi di stato, come in Sud Africa Nelson Mandela, in Zimbabwe Robert Mugabe, Idriss Deby nel Ciad e, perché no, Yasser Arafat. Se parliamo invece di quello che succede oggi tra palestinesi e israeliani, il discorso è tutto diverso: quel conflitto rischia di rimanere uguale a se stesso all'infinito. È la fine del processo di pace? Se aspettiamo la pace fra i due stati dovremmo aspettare la fine del mondo. Non le pare di esagerare? Neanche un po'. E poi mi rimproverano oggi di non aver accettato la partecipazione di Israele alla Conferenza mediterranea di Barcellona. Nè israeliani nè palestinesi, con quello che accade fra loro, possono stare seduti accanto a noi. Con quale diritto potrebbero farlo, con il comportamento che tengono? Non si tratta di capire o di giudicare chi fra i due ha torto o ragione. Questa gente lotta ancora oggi per cercare e stabilire terre e identità. Ma non sa ancora chi è. Israeliani e palestinesi non hanno ancora capito che non si possono costruire stati a base di principi etnici e religiosi. È assurdo, anacronistico e pericoloso. E' come pretendere che una piccola palla di sabbia rimanga insieme se tu la affondi nell'acqua del mare. Israele in particolare è, e sarà sempre, uno stato surreale. Il suo cittadino non sarà mai cittadino del mondo, ma solo del luogo dove avverrano i suoi investimenti. Anche la lingua ebraica si perderà dentro la globalizzazione. Questo è il suo odio atavico per Israele. No, è la realtà. E le dirò di più: anche l'alleanza sionista-americana si sbriciolerà. Perché la fame colonialista di quei due paesi è reazionaria e li metterà uno contro l'altro. Gli ebrei strumentalizzano l'America, ma prima o poi, come Mosca ha dovuto rinunciare alla Germania dell'Est così Washington dovrà rinunciare a Gerusalemme. E, quando avverrà, il conflitto tra i due paesi sarà terribile. Chi fa meglio all'America, George Bush o Al Gore? Non vedo alcuna sensibile differenza tra l'uno e l'altro candidato. La battuta fa il miracolo: un sorrìso. Ma Gheddafi ci mette un attimo a tornare Gheddafi. Si toglie e si mette le scarpe. Lui, beduino figlio dell'Africa, sta sempre a piedi nudi. Si racconta che una volta un piccolo scorpione passeggiava per la sua tenda. Lui lo prese in una morsa tra le dita dei piedi e lo stritolò. Colonnello, parliamo della liberazione degli ostaggi francesi. Alcuni dicono che è stato un gesto contro il fondamentalismo islamico, altri per dar lustro alla sua immagine. Qual è la verità? La nostra immagine non ci pareva così cattiva da sobbarcarci queste iniziative. La nostra battaglia contro il fondamentalismo islamico è già molto nota. Non ha bisogno di palcoscenico. Inoltre ricordo che l'intervento è stato fatto dalla fondazione Gheddafi e non dallo stato della Libia. Ma se è stato suo figlio ad accogliere gli ostaggi liberati e a raccontare di aver pagato 1 milione di dollari a ostaggio. Che ruolo ha oggi Seif Al Islam e quale avrà domani nella Libia moderna? La domanda gli incendia gli occhi. Chi fa queste domande viene qui e non sa che la Jamahyria vuol dire stato delle masse. Nessuno in Libia ha ruoli singoli. Nè Gheddafi nè altri. Il potere e le decisioni spettano solo al popolo. I presidenti della repubblica europei decidono quasi tutto. Niente è approvato in Libia senza il consenso dei comitati popolari. Mio figlio è, come me, un semplice cittadino. Posso aggiungere che la fondazione di cui è presidente si occupa di lotta alla droga e di handicappati. Bene, torneremo in Italia con uno scoop: spiegheremo agli italiani che abbiamo scoperto che Gheddafi non ha in Libia alcun potere. Muto. Proviamo con l'Africa. L'Africa muore: minata dalla crisi economica, martirizzata da guerre fratricide e da morbi tenibili come l'aids. Comincia a parlare come se la domanda fosse trasparente. La verità è che il mondo corre alla velocità del suono. Cambiano i paesi e i loro destini. Lo stato nazionalistico è entrato nella seconda fase: quella degli spazi regionali, nuova forma della globalizzazione. Le grandi nazioni sono sparite. Ingoiate. Una volta il Portogallo era una potenza che aveva invaso il mondo. Oggi è solo un piccolo paese dell'Unione Europea. La Gran Bretagna, nazione immensa, oggi non riesce a tener testa a un piccolo gruppo di guerriglieri come quelli dell'Ira. Chi l'avrebbe mai detto, scusi, che una signora come la Thatcher sarebbe scappata dalla finestra di una cucina per la paura di un agguato? Anche l'Africa è cambiata. Ha lottato per l'indipendenza, ha vinto, ma paga cara la sua vittoria. La libertà non basta più, ha bisogno dell'unità. Per questo sogna gli Stati Uniti d'Africa? Sì, e riuscirò a vedere il risveglio africano. Intanto ho fondato la Comunità degli stati sahael-sahariani: Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad, Centrafrica, Sudan ed Eritrea. E abbiamo vinto la sfida. Il deserto del Sahara da sempre barriera di immensità per linguaggi e culture diverse, oggi è diventato un ponte naturale fra il Nord Africa e i paesi al di là. E adesso stiamo pensando e investendo in infrastrutture: strade e mezzi di comunicazione ed elettricità. La malattia dell'Africa è soprattutto la solitudine e l'isolamento. Nel 1991 il trattato di Abuja lanciò la comunità economica africana, ma da allora niente è accaduto. Io spero che l'Europa ci aiuterà in quest'impresa. È vero che Gheddafi vuole la Banca centrale africana e che prepara la moneta dell'Africa unita? È per questo che l'Europa non ci aiuterà... Certo oggi il Fondo monetario tratta con una cinquantina di paesi e di monete in Africa. La nostra moneta potrebbe essere come quella nuova europea e la banca come quella Mondiale. Prima però bisogna rimettere in piedi la Banca di sviluppo africana. Vogliamo un Fondo monetario per l'Africa. Ci sarebbe una giusta parità fra lo yen, l'euro e le monete africane. Parliamo di Italia, colonnello. Per questo paese lei ha sempre dimostrato odio e amore. Oggi dov'è l'odio e dove l'amore? L'Italia è stata per lungo tempo nemica della Libia. Prima dell'accordo di cooperazione firmato nel '98 con il governo dell'Ulivo e di D'Alema avevamo deciso di farla restare nella lista dei nemici. Abbiamo aspettato inutilmente vent'anni. Oggi tutto può cambiare se l'accordo verrà rispettato. Attenzione, per ora poco è stato fatto. Si dice che per Massimo D'Alema e per Romano Prodi, cioè per l'Italia e per l'Europa, il suo discorso sul colonialismo dell'Europa al vertice del Cairo sia arrivato come una bomba. La verità è che Prodi si è fermato solo al mio dissenso sulla partecipazione alla Conferenza mediterranea di Barcellona. Barcellona potrebbe essere un fatto positivo per la Libia. La legherebbe a un continente progredito e aperto come l'Europa, ma ci sono cose in quel trattato che non accetteremo mai. Prima di tutto la divisione del territorio geografico dell'Africa che la Conferenza propone. L'Africa rimane unica e unita. Poi la partecipazione di Israele alla Conferenza, come ho già detto. Non potrò mai sedere accanto a quel paese. Dalla Turchia alla Palestina, bisogna tirare una linea rossa. Come è andata davvero la storia dell'invito a Bruxelles che è poi saltato? È stato un errore di Prodi. Prodi è un po' amico e un po' nemico. Lui mi ha telefonato per invitarmi. Ha fissato perfino la data. Poi ho saputo che il viaggio doveva essere considerato sospeso finché non avessi firmato un comunicato dove approvavo Barcellona. In questo caso bastava che lui mi avvisasse prima: o firmi o non vieni. Oppure vediamoci per discutere della cosa. Io credo che Prodi sia stato pressato e messo in imbarazzo da sionisti e americani. «Sei pazzo a invitare Gheddafi?». Si è trovato davanti a un muro e ha ceduto. L'ex presidente Francesco Cossiga ha lavorato molto per la fine dell'embargo. Durante gli incontri con lui furono decisi progetti finanziari, cooperazione politica ed economica. Cosa resta di quegli accordi? È vero che si ricomincia a parlare di nuovi affari con la Fiat? Che ne è del grande gasdotto progettato dall'Agip petroli e dalla Oil corporation libica? La Libia ha una grande presenza anche nella seconda banca italiana, la Banca di Roma. Con quali obiettivi strategici? Noi siamo aperti alla collaborazione finanziaria ed economica con l'Italia. Il gasdotto è un progetto immenso e sacro che va avanti. Dalla Libia all'Italia e dall'Italia al resto d'Europa. Inoltre, la nostra partecipazione alla Banca di Roma verrà aumentata di molto. In quest'operazione i libici stanno facendo grandissimi passi avanti. Per finire, finché la porta di Tripoli resterà aperta all'Italia, la Fiat o qualunque altra azienda italiana sarà la benvenuta. Se sarà la benvenuta, perché ha fatto aspettare inutilmente Giovanni Agnelli a Tripoli prima dell'estate? Agnelli ha detto? Perché il presidente della Fiat dovrebbe incontrare Gheddafi? Sarebbe solo un incontro simbolico. Agnelli deve incontrare gli enti competenti per discutere certe cose. Colonnello Gheddafi, una domanda che interessa molto agli italiani: quanto dureranno i prezzi folli del petrolio? E quanto potrebbero crescere ancora? Faccio appello agli europei e agli italiani: riducete le tasse sui prodotti petroliferi! I governi europei incassano quattro volte di più dei paesi produttori del petrolio. Se noi guadagniamo 20 dollari netti al barile, loro ne prendono 80. Verrà prima o poi in Italia? Sì, se il popolo libico darà il suo consenso al viaggio. Nonostante la posizione di certi cattolici nei confronti dei musulmani? Il cardinale Giacomo Biffi ha ribadito la sua crociata contro l'Islam. A Giacarta due settimane fa la World islamic call society, che raggruppa 180 paesi islamici, ha invece predicato comprensione per le culture diverse. Lei come risponde? Che chi parla mi rende perplesso. Chi critica e attacca un musulmano perché prega e rispetta la sua religione non ha un vero Dio. Pregare Dio sotto una tenda, dentro una moschea o una chiesa non fa e non deve fare differenza. La diversità è tra qualcuno che prega Dio e qualcun altro che adora il diavolo. L'«Herald tribune» dice che nel processo in corso in Olanda sul caso Lockerbie non sono emerse prove certe sulla colpevolezza dei cittadini libici accusati. Se dovessero essere assolti, lei cosa farebbe? Pretenderò
risarcimenti esattamente uguali ai danni che abbiamo
ricevuto. |