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Biografia, interventi e omelie
di Sua Eminenza Card. GIACOMO BIFFI

(materiale tratto dal sito "www.bologna.chiesacattolica.it")

 


Sua Eminenza il Card. GIACOMO BIFFI

Arcivescovo di Bologna

118° Pastore della Chiesa Bolognese

110° Successore di San Petronio

Profilo biografico:

Sua Eminenza il Card. Giacomo Biffi è nato a Milano il 13 giugno 1928. Compiuti gli studi ecclesiastici nei Seminari dell’Arcidiocesi Ambrosiana, è stato ordinato sacerdote a Milano il 23 dicembre 1950 dall’Arcivescovo Card. Alfredo Ildefonso Schuster.
Laureatosi in Teologia nel 1955 con una tesi su "La colpa e la libertà nell’odierna condizione umana", ha insegnato per alcuni anni nei Seminari dell’Arcidiocesi milanese.
Dal 1960 al 1969 è stato Parroco ai Ss. Martiri Anauniani a Legnano, e dal 1969 al 1975 alla Parrocchia di S. Andrea a Milano.

Il 19 febbraio 1975 è stato nominato Canonico Teologo del Capitolo Metropolitano di Milano.
Vicario Episcopale per la Cultura dal 1974, nel 1975 è stato nominato anche Direttore dell’Istituto Lombardo di Pastorale.
Nell’Arcidiocesi milanese ha ricoperto pure l’incarico di responsabile della Commissione per il Rito Ambrosiano.
Il 7 dicembre 1975 Paolo VI lo ha nominato Vescovo titolare di Fidene, deputandolo Ausiliare dell’Arcivescovo di Milano Card. Giovanni Colombo. Per le mani dello stesso Card. Colombo ha ricevuto l’Ordinazione Episcopale nella Chiesa parrocchiale di S. Andrea a Milano l’11 gennaio 1976. Dal 1976 al 1982 ha fatto parte della Commissione Episcopale della C.E.I. per la dottrina della fede, la catechesi e la cultura, di cui è stato Segretario dal 1979 al 1982. Nel 1982 è stato eletto fra i componenti la Commissione Episcopale per la Liturgia.
Promosso Arcivescovo di Bologna il 19 aprile 1984, prese canonico possesso dell’Arcidiocesi il 1° giugno 1984, e vi fece il solenne ingresso il 2 giugno 1984. Eletto Presidente della Conferenza Episcopale Emilia-Romagna il 7 luglio 1984.
Creato e pubblicato Cardinale prete del Titolo dei Ss. Giovanni Evangelista e Petronio a Campo de’ Fiori da Sua Santità Giovanni Paolo II nel Concistoro del 25 maggio 1985. E’ membro delle Congregazioni per il Clero, per l’Educazione Cattolica e per l'Evangelizzazione dei popoli.
È autore di numerose pubblicazioni a carattere teologico e catechetico, fra le quali:

Alla destra del Padre (Vita e Pensiero 1967), Meditazioni sulla vita ecclesiale (Ancora 1972, Piemme 1993), Sullo Spirito di Dio (O.R. 1974), Contro Maestro Ciliegia. Commento teologico a "Le avventure di Pinocchio" (Jaca Book 1977, Mondadori 1998), Io credo. Esposizione della fede cattolica (Jaca Book 1980), La Bella, la bestia e il cavaliere (Jaca Book 1984), Linee di escatologia cristiana (Jaca Book 1984), Tu solo il Signore. Saggi teologici d’altri tempi (Piemme 1987), Approccio al Cristocentrismo. Note storiche per un tema eterno (Jaca Book 1994), Il Quinto evangelio (Piemme 1994), Esplorando il disegno... (Elle Di Ci, 1994), Christus hodie (EDB, 1995), Casta meretrix (Piemme 1996), Liberti di Cristo. Saggio di antropologia cristocentrica (Jaka Book, 1996), Tre riflessioni sullo Spirito Santo (Elle Di Ci, 1997), Piena di Grazia (Piemme, 1997), Discorso alla città (Mondadori, 1998), Ambrogio Vescovo. Attualità di un maestro (S. Paolo, 1998), Pietro (Mondadori, 1998), La sposa chiacchierata. Invito all'ecclesiocentrismo (Jaka Book, 1998), Risorgimento, stato laico e identità nazionale (Piemme, 1999). Ha pure collaborato intensamente alla pubblicazione dell’Opera Omnia di S. Ambrogio (Città Nuova e Biblioteca Ambrosiana) e all’Opera omnia di S. Pietro Crisologo (Città Nuova e Biblioteca Ambrosiana, 1996).

Una ampia antologia tematica della sua predicazione si trova in La meraviglia dell’evento cristiano (Piemme 1995), e Ripartire dalla verità (Mondadori, 1997).
I principali documenti pastorali (Note pastorali, Notificazioni, Decreti, ecc.) relativi al periodo di episcopato bolognese sono raccolti in Fonti Pastorali della Chiesa di Bologna. I. 1984 - 1993. EDB, 1994.

 

 

Estratti e brani integrali tratti dal sito dedicato a Sua Eminenza il Card. GIACOMO BIFFI

LA CITTA’ DI SAN PETRONIO NEL TERZO MILLENNIO (dalla nota pastorale)

SCIENZA E CONOSCENZA: VERSO QUALE RAZIONALITA'?

"L'EUROPA DEL 9 MAGGIO 1950 HA CINQUANT'ANNI"

MUTAMENTI CULTURALI, FEDE CRISTIANA E CRESCITA DELLA LIBERTA'

OMELIA NEL "TE DEUM" DI FINE ANNO

"IL SEMINARIO REGIONALE COMPIE OTTANT'ANNI"

"PROGETTO CULTURALE, PASTORALE SOCIALE E DEL LAVORO E RUOLO DEL LAICATO"

OMELIA NELLA FESTA DI SAN GIUSEPPE ARTIGIANO

INTERVENTO IN OCCASIONE DELLA XIV GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTU'

VLADIMIR SERGEEVIC SOLOVEV: UN PROFETA INASCOLTATO

 

LA CITTA’ DI SAN PETRONIO NEL TERZO MILLENNIO

Settembre 2000 - brani tratti dalla Nota pastorale del Cardinale Arcivescovo

(...) 36. Le "difficili sfide del nostro tempo" sono già in atto, e la città di san Petronio deve commisurarsi con loro senza panico e senza superficialità: i generici allarmismi non servono; ma tanto meno servono le banalizzazioni ansiolitiche e le giulive minimizzazioni. Riuscirà Bologna anche nel Terzo Millennio e a che prezzo e con quali efficaci accorgimenti a conservare la propria identità, a svilupparsi secondo la sua vocazione umana e cristiana, a irradiare ancora nel mondo la sua civiltà? "Il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sotto le Due Torri?" (cf. Lc 18,8):l'inquietante interrogativo, che Gesù ha lasciato senza risposta, ci aiuterà così attualizzato a proseguire nella riflessione con la necessaria serietà. Le "sfide" che già ci sovrastano sono principalmente due: il crescente afflusso di genti che vengono a noi da paesi lontani e diversi; il diffondersi di una cultura non cristiana tra le popolazioni cristiane. Ne trattiamo distintamente nella forma più chiara e succinta possibile.

1. La questione dell'immigrazione

Una sorpresa

37. Dobbiamo riconoscere che il fenomeno di una massiccia immigrazione ci ha colti un po' tutti di sorpresa. È stato colto di sorpresa lo Stato, che dà tuttora l'impressione di smarrimento e pare non abbia ancora recuperata la capacità di gestire razionalmente la situazione, riconducendola entro le regole irrinunciabili e gli ambiti propri di un'ordinata convivenza civile. E sono state colte di sorpresa anche le comunità cristiane, ammirevoli in molti casi nel prodigarsi ad alleviare disagi e pene, ma sprovviste finora di una visione non astratta, non settoriale, abbastanza concorde. Le generiche esaltazioni della solidarietà e del primato della carità evangelica che in sé e in linea di principio sono legittime e anzi doverose si dimostrano piuttosto bene intenzionate che utili quando non si confrontano davvero con la complessità del problema e la ruvidezza della realtà effettuale.

L'annuncio del Vangelo

38. Deve essere ben chiaro che non è di per sé compito della Chiesa come tale risolvere ogni problema sociale che la storia di volta in volta ci presenta. Le nostre comunità e i nostri fedeli non devono perciò nutrire complessi di colpa a causa delle emergenze imperiose che essi con loro forze non riescono ad affrontare. Sarebbe un implicito, ma comunque grave e intollerabile "integralismo" il credere che le aggregazioni ecclesiali possano essere responsabilizzate di tutto. Compito nostro inderogabile è invece l'annuncio del Vangelo e l'osservanza del comando dell'amore.

39. Prima di tutto l'annuncio del Vangelo. Dovere statutario della Chiesa Cattolica, e in essa di ogni battezzato, è di far conoscere a tutti esplicitamente Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio morto per noi e risorto, oggi vivo e Signore dell'universo, unico Salvatore dell'umanità intera. Tale missione può essere efficacemente coadiuvata, ma non può essere in alcun modo surrogata da qualsivoglia attività assistenziale. Essa suppone la nostra attitudine al dialogo sincero, aperto, rispettoso con tutti, ma non può mai risolversi nel solo dialogo. Può essere favorita dalla nostra conoscenza oggettiva delle posizioni altrui, ma si avvera soltanto quando noi riusciamo a portare all'esplicita conoscenza di Cristo quei nostri fratelli, che sventuratamente ancora non ne sono beneficiati. Non bisogna poi dimenticare che l'azione evangelizzatrice è di sua natura universale e non tollera deliberate esclusioni di destinatari: "Predicate il Vangelo a ogni creatura" (cf. Mc 16,15), ci ha detto il Risorto. E non è mai giustificata una rassegnata rinuncia a questo proposito, nemmeno quando, umanamente parlando, sembri poco prevedibile il conseguimento di qualche risultato positivo: chi crede nella forza sovrumana dello Spirito Santo, non desiste mai dall'annunciare la strada della salvezza.

40. È molto importante infine che tutti i cattolici si rendano conto di questa loro indeclinabile responsabilità, che essi hanno nei confronti di tutti i nuovi arrivati (musulmani compresi). Per essere però buoni evangelizzatori essi devono crescere sempre più nella gioiosa intelligenza degli immensi tesori di verità, di sapienza, di consolante speranza che hanno la fortuna di possedere: è un'effusione di luce divina, assolutamente inconfrontabile con i pur preziosi barlumi offerti dalle varie religioni e dall'Islam; e noi siamo chiamati a renderne partecipi appassionatamente e instancabilmente tutti i figli di Adamo.

41. Senza dubbio dovere nostro è anche l'esercizio della carità fraterna. Di fronte a un uomo in difficoltà quale che sia la sua razza, la sua cultura, la sua religione, la legalità della sua presenza, i discepoli di Gesù hanno l'obbligo di amarlo operosamente e di aiutarlo a misura delle loro concrete possibilità. Di questa responsabilità noi siamo tenuti a rendere conto al Signore; ma solo a lui, e a nessun altro.

Approccio realistico

42. Nel variegato panorama dell'immigrazione, le comunità cristiane non possono non valutare attentamente i singoli e i diversi gruppi, in modo da assumere poi realisticamente gli atteggiamenti più pertinenti e opportuni. Agli immigrati cattolici quale che sia la loro lingua e il colore della loro pelle bisogna far sentire nella maniera più efficace che all'interno della Chiesa non ci sono "stranieri": essi a pieno titolo entrano a far parte della nostra famiglia di credenti e vanno accolti con schietto spirito di fraternità. Quando sono presenti in numero rilevante e in aggregazioni omogenee consistenti, andranno sinceramente incoraggiati a conservare la loro tipica tradizione cattolica, che sarà oggetto di affettuosa attenzione da parte di tutti. Ai cristiani delle antiche Chiese orientali, che non sono ancora nella piena comunione con la sede di Pietro, esprimeremo simpatia e rispetto. E, in conformità agli accordi generali e secondo l'opportunità, potremo favorirli anche dell'uso di qualche nostra chiesa per le celebrazioni. Gli appartenenti alle religioni non cristiane vanno amati e quanto è possibile, aiutati nelle loro necessità. Non va però in nessun modo disatteso quanto è detto nella Nota CEI del 1993: "Le comunità cristiane, per evitare inutili fraintendimenti e confusioni pericolose, non devono mettere a disposizione, per incontri religiosi di fedi non cristiane, chiese, cappelle e locali riservati al culto cattolico, come pure ambienti destinati alle attività parrocchiali" (Ero forestiero e mi avete visitato 34).

Considerazione generale

43. Possiamo aggiungere un'annotazione, che riguarda da vicino soprattutto il comportamento auspicabile dello Stato e di tutte le varie autorità civili. I criteri per ammettere gli immigrati non possono essere solamente economici e previdenziali (che pure hanno il loro peso). Occorre che ci si preoccupi seriamente di salvare l'identità propria della nazione. L'Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza un'inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto. In vista di una pacifica e fruttuosa convivenza, se non di una possibile e auspicabile integrazione, le condizioni di partenza dei nuovi arrivati non sono ugualmente propizie. E le autorità civili non dovrebbero trascurare questo dato della questione. In ogni caso, occorre che chi intende risiedere stabilmente da noi sia facilitato e concretamente sollecitato a conoscere al meglio le tradizioni e l'identità della peculiare umanità della quale egli chiede di far parte.

44. Sotto questo profilo, il caso dei musulmani va trattato con una particolare attenzione. Essi hanno una forma di alimentazione diversa (e fin qui poco male), un diverso giorno festivo, un diritto di famiglia incompatibile col nostro, una concezione della donna lontanissima dalla nostra (fino ad ammettere e praticare la poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente integralista della vita pubblica, sicché la perfetta immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche se di solito a proclamarla e farla valere aspettano prudentemente di essere diventati preponderanti. Mentre spetta a noi evangelizzare, qui è lo Stato ogni moderno Stato occidentale a dover far bene i suoi conti. Cattolicesimo "religione nazionale storica"

45. Da ultimo, sarà bene che nessuno ignori o dimentichi che il cattolicesimo che non è più la "religione ufficiale dello Stato" rimane nondimeno la "religione storica" della nazione italiana, oltre che la fonte precipua della sua identità e l'ispirazione determinante delle nostre più autentiche grandezze. Perciò è del tutto incongruo assimilarlo alle altre forme religiose o culturali, alle quali dovrà sì essere assicurata piena libertà di esistere e di operare, senza però che questo comporti o provochi un livellamento innaturale o addirittura un annichilimento dei più alti valori della nostra civiltà. Va anche detto che è una singolare concezione della democrazia il far coincidere il rispetto delle minoranze con il non rispetto delle maggioranze, così che si arriva di fatto all'eliminazione di ciò che è acquisito e tradizionale in una comunità umana. Si attua un'"intolleranza sostanziale", per esempio, quando nelle scuole si aboliscono i segni e gli usi cattolici, cari alla stragrande maggioranza, per la presenza di alcuni alunni di altre religioni.

2. Il diffondersi di una cultura non cristiana

46. Più dell'immigrazione, ci interpella e ci sollecita a una risposta il diffondersi tra le popolazioni di antica fede cristiana, come la nostra, di una "cultura non cristiana". Il fenomeno è evidente non riguarda solo Bologna: ha dimensioni continentali e addirittura planetarie.

La cultura estranea al cristianesimo

47. C'è prima di tutto una cultura che, pur non essendo nativamente e programmaticamente ostile alla visione cristiana, prescinde da essa ed è ad essa estranea. C'è, per esempio l'affermarsi di una razionalità scientifico tecnologica, intesa a elaborare un pensiero funzionale e operativo, che implicitamente censura ogni approccio alla verità in se stessa. C'è in campo economico sociale l'emergenza di una "globalizzazione" la quale non può non preoccupare per le sue possibili conseguenze sul mondo del lavoro che di fronte agli anonimi potentati finanziari rischia di incorrere in un invincibile stato di alienazione. C'è lo sviluppo sempre più sofisticato dei mezzi di comunicazione: esso porta con sé il predominio di una cultura visiva e intuitiva che è prigioniera della percezione e dell'attualità, a scapito della riflessione personale, della memoria storica e della capacità di progettare il futuro. C'è la ricerca di una "libertà senza verità", che finisce col mortificare la dimensione etica della vita. In conseguenza di questa libertà incondizionata e vuota di valori, l'uomo è insidiato nella sua stessa dignità e perfino nella sua sopravvivenza: le fantasie genetiche, il crollo della natalità, il disprezzo della vita umana (soprattutto con la vergognosa legalizzazione dell'aborto), la glorificazione delle devianze sessuali, la corrosione dell'istituto della famiglia e il permissivismo dilagante ne sono i segni più manifesti.

48. Si comprende agevolmente che in questa multiforme tendenza culturale, che per larga parte appare incontrastabile, molti aspetti non sono accettabili; però non tutto è perverso e non tutto è irredimibile. Occorre dunque un'abitudine alla valutazione e al discernimento, che ci dica di volta in volta che cosa si possa accogliere, che cosa si debba apertamente contrastare e che cosa sia plausibile orientare cristianamente; valutazione e discernimento che dovranno obbedire non a criteri "politici" (come la determinazione a cercare accordi e consonanze a ogni costo), ma all'assoluta fedeltà nei confronti dell'immutabile verità rivelata e della nostra identità di credenti.

L'attacco esplicito al fatto cristiano

49. Oggi è in atto una delle più gravi e ampie aggressioni al cristianesimo (e quindi alla realtà di Cristo) che la storia ricordi. Tutta l'eredità del Vangelo viene progressivamente ripudiata dalle legislazioni, irrisa dai "signori dell'opinione", scalzata dalle coscienze specialmente giovanili. Di tale ostilità, a volte violenta a volte subdola, non abbiamo ragione di stupirci né di aver troppa paura, dal momento che il Signore e i suoi apostoli ce l'hanno ripetutamente preannunziata: "Non meravigliatevi se il mondo vi odia" (1Gv 1,26). Ci si può meravigliare invece degli uomini di Chiesa che non sanno o non vogliono prenderne atto: in realtà, la sola cosa, di cui può temere chi è ben deciso a operare nella fede, è l'insipienza dei "figli della luce" i quali talvolta non si accontentano di "rallegrarsi con chi è allegro e di piangere con chi piange" (cf. Rm 12,15), ma finiscono anche a smarrirsi con chi si smarrisce.

In conclusione

50. In un'intervista di una decina d'anni fa mi è stato chiesto con invidiabile candore: "Ritiene anche Lei che l'Europa sarà cristiana o non sarà?". La risposta di allora può aiutarmi a chiarire il mio pensiero di oggi. "Io penso dicevo che l'Europa o ridiventerà cristiana o diventerà musulmana. Ciò che mi pare senza avvenire è la "cultura del niente", della libertà senza limiti e senza contenuti, dello scetticismo vantato come conquista intellettuale, che sembra essere l'atteggiamento dominante nei popoli europei, più o meno tutti ricchi di mezzi e poveri di verità. Questa "cultura del niente" (sorretta dall'edonismo e dalla insaziabilità libertaria) non sarà in grado di reggere all'assalto ideologico dell'Islam che non mancherà: solo la riscoperta dell"'avvenimento cristiano" come unica salvezza per l'uomo e quindi solo una decisa risurrezione dell'antica anima dell'Europa potrà offrire un esito diverso a questo inevitabile confronto". (...)


Brani tratti da: SALUTO IN OCCASIONE
DEL CONVEGNO INTERNAZIONALE
SCIENZA E CONOSCENZA: VERSO QUALE RAZIONALITA'?

Martedì 5 settembre 2000, ore 15,30, Oratorio di San Filippo Neri, Via Manzoni 5

(...) D’altra parte, alla dignità del Creatore l’uomo attenta anche per la strada contraria di un’autoesaltazione che lo induca a pensarsi lui come l’assoluto e l’incondizionato, non riconoscendo nessuno sopra di sé; o quantomeno che gli suggerisca l’auspicio che Dio stia confinato oltre la zona del nostro concreto esistere e dei nostri interessi.

Il contraccolpo gnoseologico di questa specie di "arroganza metafisica" è di supporre che non ci sia, o non sia attingibile, altra verità che quella attinta dalla ragione con le sole sue forze; o quantomeno di negare " a priori" la possibilità stessa di una divina Rivelazione, contestando cioè un po’ comicamente a Dio quel diritto a parlare nei modi e nelle forme da lui liberamente scelte, che egli fieramente rivendica per sé.

Questa è una tentazione che, almeno in maniera implicita, s’insinua con qualche facilità negli uomini di pensiero, perché è innegabile il fascino che esercita sull’uomo la prospettiva di possedere l’unica luce di conoscenza, di essere lui il "signore della verità", di potersi ritenere la "misura di tutte le cose" (come diceva Protagora). E’ il guaio - opposto a quello della ragione "depressa" - della "presunzione intellettuale", "quae mater est omnis erroris" (per citare ancora una volta san Tommaso d’Aquino).

Depressione e prevaricazione sono rischi diversi e antitetici nei quali può incorrere la ragione naturale. Sono diversi e antitetici, ma ambedue portano a uno stato invalicabile di alienazione, perché ci precludono il senso ultimo della realtà e ogni speranza esistenziale che non sia effimera.

* * *

La nostra aspirazione è che tra fede e ragione cessino finalmente i malintesi, e anzi si addivenga a un loro stabile matrimonio; un matrimonio che, se riuscirà a superare le ricorrenti crisi per incompatibilità di carattere tra i nubendi, certamente gratificherà la conoscenza integrale dell’uomo di una nuova fecondità.

La storia culturale e spirituale d’Italia - se ripercorsa senza censure o alterazioni ideologiche - ci può offrire a questo proposito qualche speranza, dal momento che le sue epoche più splendenti sono contrassegnate appunto da quegli auspicati sponsali. E’ stato autorevolmente notato che, se le cattedrali di pietra sono una gloria soprattutto francese, le cattedrali del pensiero sono segnatamente un vanto italiano: Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, Dante Alighieri - ispirati da una forte e limpida fede in Cristo e nel suo Vangelo - hanno innalzato monumenti alla verità, al rigore speculativo, alla bellezza che non temono confronti.

Tornare almeno ad ammirare questi capolavori potrebbe essere un buon ricostituente per il pensiero esangue e un po’ deperito dei nostri tempi. (...)


Brani tratti da: SALUTO AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO:

"L'EUROPA DEL 9 MAGGIO 1950 HA CINQUANT'ANNI"

Sabato 13 maggio - ore 9,00-Sala dei Carracci di Rolo Banca 1473

(...) L'odierna impressionante povertà morale deve essere vinta con una rigenerazione nutrita ai temi perenni e universali della nostra tradizione.

Insieme coi cattolici, l'Italia tutta è chiamata a ravvivare i suoi miracoli di civiltà per ridonare all'Europa quel sentimento quasi messianico che essa ha sperimentato in altre situazioni, congiunto con una rinnovata attenzione ai valori trascendenti e con un ricupero della classicità senza i quali non è possibile nessun rinnovamento profondo.

Questa consapevolezza di avere una grande missione da compiere ci aiuterà a collocarci nell'Europa unita non come una colonia culturale del mondo anglosassone o come duplicato senza rigore e senza originalità della Francia o della Germania, ma con una precisa identità e con il convincimento di ripresentare, per quel che è possibile, quanto l'Italia seppe compiere ai tempi di San Benedetto, di San Fancesco, di Dante, dell'Umanesimo, del Rinascimento e della Riforma cattolica (amerei anzi dire della 'Riforma borromaica').

L'impresa è alta e difficile. Ma, come sta scritto, 'questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede' (cf. 1Gv 5,4).


Intervento al TERZO FORUM DEL PROGETTO CULTURALE
della
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Con tema:

MUTAMENTI CULTURALI, FEDE CRISTIANA E CRESCITA DELLA LIBERTA'

Venerdì 24 e Sabato 25 marzo - Pieve di Cento (Bologna)

Quando il cardinal Giovanni Colombo, più di venticinque anni fa, mi propose di diventare vicario episcopale per la cultura, una delle mie obiezioni è stata: "Ma io non so che cosa sia la cultura". "Non preoccuparti - mi rispose - perché non lo sanno neanche gli altri".

Non so se le cose stiano ancora così. E’ innegabile però che quanti oggi parlano di "cultura" dànno quanto meno l’impressione che non assegnino sempre al termine lo stesso valore. I significati sono diversi, a seconda di chi parla o scrive; talvolta sono diversi addirittura entro lo stesso discorso, la stessa pagina, la stessa frase. E così si può dialogare e discutere anche a lungo sui programmi culturali senza intendersi nemmeno sull’argomento del discorso; e perciò senza probabilità di arrivare a qualche conclusione plausibile.

Sono decine e decine le definizioni di cultura che sono state date, ciascuna con qualche particolarità sua e con qualche elemento proprio. Non si può ovviamente passarle qui tutte in rassegna; e tuttavia un minimo di chiarificazione si impone, se si vuol affrontare senza candidarsi alla disperazione il tema dei rapporti tra cultura e fede, anzi tra cultura e "fatto cristiano".

A questo fine mi affido, per cavarmela, all’ipotesi che siano tre i sensi fondamentali in grado di mettere un po’ d’ordine e di orientarci (o almeno di preservarci dallo smarrirci) nella foresta lussureggiante delle innumerevoli accezioni.

La ragione precipua di questa pluralità si può ravvisare nella circostanza che la parola "cultura" da un paio di secoli è andata assumendo via via nuovi contenuti, che si sono aggiunti a quelli precedenti senza metterli però mai fuori uso. Così alla concezione originaria, che abbiamo ereditato dall’antichità classica, se ne è aggiunta nel secolo scorso un’altra, mutuata dalle discipline antropologiche ed etnologiche, e lungo il secolo ventesimo una terza che privilegia la dimensione ideologica, normativa, comportamentale.

Cercheremo in primo luogo di tracciare per ciascuna delle tre concezioni un’immagine essenziale; così potremo tentare, in secondo luogo, di capire quale spazio e quale compito specifico possa e debba avere il cristianesimo in tutte e tre le forme di cultura che saranno state descritte.

I

I significati fondamentali

di cultura

1. La "coltivazione dell’uomo"

All’origine c’è una figura di derivazione agricola: "cultura" è coltivazione dell’uomo nella sua vita interiore. In questo senso già Cicerone e Orazio parlavano di una "cultura animi" e di una "cultura hominis".

Il concetto è più vasto di quello di "paideia", che si riferisce alla prima età e all’età evolutiva. Qui si tratta dell’intera esistenza: l’uomo può e deve essere continuamente arricchito in ogni sua stagione. Si tratta, per così dire, di una progressiva "umanizzazione": l’uomo diventa uomo in una misura sempre più ampia e in un’attuazione sempre più compiuta.

Questa "coltivazione" si realizza mediante l’assimilazione dei "valori assoluti"; vale a dire, il vero, il bene o il giusto, il bello. Solo la verità, la giustizia, la bellezza sanno nutrire l’uomo, l’aiutano a crescere e ne fanno sbocciare tutte le virtualità.

Sempre restando in questa prospettiva, si passò poi a indicare con lo stesso vocabolo non solo l’azione del "coltivare", ma anche il suo risultato. "Cultura" di un uomo è il suo patrimonio spirituale acquisito: i suoi "guadagni" intellettuali, morali ed estetici.

A cominciare dalla metà del Settecento, con la progressiva esaltazione dell’idea di "popolo" e di "nazione", il termine "cultura" acquista una dimensione, per così dire, spiccatamente sociale. E si principiò a parlare della "cultura" di un paese, di una gente, di una comunità, identificandola nei mezzi "sociali" e nei risultati "sociali" di questa attività: prima di tutto le scuole, gli istituti di ricerca, le forme di comunicazione delle idee; poi la produzione filosofica, letteraria, artistica, musicale.

2. La somma delle "elaborazioni" di un popolo

Dalla seconda metà del secolo scorso avviene un vero e proprio capovolgimento. Si delinea un nuovo concetto nel quale l’uomo non è più il destinatario e il termine di un’azione (come nella visione "classica"), bensì il soggetto e il principio, e non individualisticamente ma secondo una dimensione, per così dire, corale. Il vocabolo comincia a significare tutto ciò che, provenendo comunque da un insieme di uomini, ne diventa possesso comune, proprio e caratterizzante.

Non ha qui alcuna rilevanza il "valore" intrinseco del prodotto. "Cultura" di un popolo è la totalità dei suoi elaborati e dei suoi comportamenti. In questo senso si possono ritenere dati "culturali", alla stessa stregua del Partenone e delle opere di Platone, le selci scheggiate dei primitivi, le fiabe dei pigmei, le consuetudini tribali di convivenza, di alimentazione, di lavoro.

Ed è naturale che prevalga l’uso plurale del termine: ci sono tante culture quanti sono i raggruppamenti umani. Si può parlare, ad esempio, di una cultura etrusca, di una cultura romagnola, di una cultura indonesiana; e si può anche allestire un museo della cultura contadina e della cultura montanara.

3. La "scala dei valori"

Da poco più di mezzo secolo si va imponendo un’altra e ben diversa accezione: con il termine "cultura" si intende una particolare interpretazione della realtà, che assurge a criterio di giudizio e di comportamento.

La parola viene così a indicare un sistema condiviso di valutazione delle idee, degli atti, degli eventi; e quindi anche un complesso di "modelli" di vita socialmente esaltati o quanto meno socialmente accolti. Ogni "cultura" intesa così comporta, come si vede, una "scala di valori" proposta e accettata entro un determinato raggruppamento.

In questo senso si può ravvisare, tra le molte, una cultura collettivistica, una cultura liberistica, una cultura radicale, eccetera.

Questa sommaria catalogazione dovrebbe ridurre i rischi delle ambiguità e dei malintesi nell’impresa di cogliere i rapporti necessari o almeno possibili tra il fatto cristiano e la sua auspicabile "inculturazione". Torneremo dunque a esaminare successivamente i vari concetti di cultura che sono stati elencati, non più per se stessi ma all’interno di questo problema specifico.

II

Le varie inculturazioni della fede

1. La "coltivazione cristiana dell’uomo"

La Rivelazione, oltre a donarci una "teologia antropologica", fondata sulla manifestazione dell’uomo Cristo Gesù, immagine perfetta del Padre, ci regala anche una "antropologia teologica", che riconosce nel Figlio di Dio incarnato, morto per noi e risorto, l’archètipo di ogni autentica umanità; ed è la sola antropologia davvero esauriente: "Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero dell’uomo" (Gaudium et spes 22), dice mirabilmente il Concilio Vaticano II, dal momento che, aggiunge, "Cristo…svela pienamente l’uomo all’uomo" (ib.).

Sicché è chiaro che la "coltivazione" adeguata dell’uomo è quella che nasce ed è nutrita dalla fede, cioè dalla conoscenza che partecipa a quella che Dio ha delle sue creature. D’altronde, secondo la parola di Gesù, il primo e il vero e l’unico coltivatore dell’uomo è il Padre (cf Gv 15,1): ogni altra "cultura hominis", che non sia in qualche modo riverbero e attuazione nel tempo di quella del Padre, rischia sempre di essere arbitraria e manipolante.

Anche la "coltivazione cristiana" si avvarrà - come ha sapientemente intuito già il mondo antico - del vero, del giusto, del bello. Anzi, questi valori potranno e dovranno essere ricercati per se stessi, senza sacralizzazioni superflue, nella certezza che, quando sono autentici, sempre essi ci avvicinano e ci conformano a Cristo, il quale è la verità, la giustizia, la misericordia, la bellezza, divenute misteriosamente figura e realtà di uomo attingibile e viva.

2. Il "patrimonio culturale cristiano"

Nei duemila anni della nostra storia, molti contributi decisivi dati alla elevazione interiore dell’uomo e molti tra i frutti più nobili e preziosi dello spirito in tutti i campi (letteratura, arti figurative, architettura, musica, filosofia, diritto, eccetera) portano incaccellabili in sé i segni della loro origine dalla fede cristiana. E’ il nostro "tesoro di famiglia".

Il problema per la comunità dei credenti è quello di ridivenire consapevole - e quindi di reimpossessarsi conoscitivamente ed emotivamente - di questa immensa ricchezza.

Va poi notato - contro ogni tentazione di interiore grettezza - che dobbiamo apprezzare e avvalorare come provvidenziale nutrimento dell’anima ogni irradiazione di verità, di giustizia, di bellezza, dovunque appaia e comunque si manifesti.

Gli autori possono essere intenzionalmente lontanissimi dalla militanza ecclesiale (e noi li lasceremo rispettosamente dove vogliono stare, senza battezzarli arbitrariamente), ma i loro "valori", se sono sul serio "valori", sono sempre cosa nostra, perché oggettivamente sono sempre riflesso della luce di Cristo; e tutti possono confluire nella "cultura cristiana". Come dice san Tommaso: "Omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est" (I-II, q.109, a.1, ad 1: "Ogni verità, da chiunque sia detta, viene dallo Spirito Santo").

3. I "mezzi per la coltivazione cristiana"

La "coltivazione cristiana dell’uomo", se non vuol restare soltanto un’astratta e vana affermazione di principio, deve avere i mezzi per assolvere i propri compiti.

E’ un argomento di eccezionale gravità, e andrebbe ampiamente trattato e vigorosamente affrontato, in particolare alla presenza di uno stato e di altri potentati di varia natura che sempre più estesamente occupano gli spazi esistenziali e si impadroniscono degli strumenti di comunicazione, di formazione, di socializzazione, in palese contrasto col principio di sussidiarietà.

In una società che non aspiri a diventare un "regime" - comunque si denomini e si colori - chi a diverso titolo detiene di fatto il potere non deve tanto imporre una propria cultura quanto favorire le culture delle legittime aggregazioni; tra le quali la prima - sia per la sua determinante presenza nella storia della nostra nazione sia per il suo imparagonabile apporto al configurarsi di una identità italiana - è senza dubbio la realtà cattolica.

In ogni caso, anche nelle situazioni esterne più svantaggiose, le comunità cristiane devono instancabilmente adoperarsi per la sussistenza, lo sviluppo, l’affermazione della loro inconfondibile vita culturale.

4. La "cristianità"

Una "cultura" nel senso antropologio-etnologico che s’è visto - e cioè tutto il complesso degli "elaborati umani" collettivi - va riconosciuta a ogni insieme di persone individuabile come popolo. In essa trovano posto le tradizioni, le costumanze, le forme di lavoro e di vita, il folclore, i comuni prodotti dell’ingegno e dell’abilità manuale, che una data gente ben definita riconosce come propri.

Esiste un "popolo cristiano", socialmente percepibile e identificabile come tale? O, che è lo stesso, esiste una "cristianità"?

L’indole stessa dell’avvenimento cristiano esige che la "comunione" - mistero trascendente ed eterno - aspiri continuamente a farsi "comunità"; cioè una realtà compaginata, commisurata al tempo e storicamente determinata.

La fede chiede - per intrinseco dinamismo - di investire e trasformare tutto l’uomo in tutte le sue dimensioni, personale, familiare, sociale. Perciò in nessun momento della sua vicenda la Chiesa può mancare di dare vita a una "cristianità", secondo forme che mutano col mutare delle epoche e dei luoghi ma che non possono venire meno in assoluto.

La nostra attuale "cristianità" potrà anche essere di minoranza, diversamente da quella di qualche secolo fa; ma non per questo deve essere meno vivace e meno fortemente caratterizzata. E non potrà mai delinearsi come fenomeno privo di permanenza nel tempo, senza premesse e senza radici: essa sarà tanto più vitale ed efficace quanto più sarà ispirata e avvalorata non solo dai princìpi eterni del Vangelo ma anche dalla sempre desta memoria del suo passato.

Come si vede, il rilancio di una "cultura cristiana" intesa così è condizionato dalla ravvivata coscienza dell’esistenza di un "popolo cristiano", con la sua storia, le sue consuetudini, le sue feste, le sue opere, le sue multiformi manifestazioni.

5. La "scala cristiana dei valori"

Quando un raggruppamento umano arriva a riconoscere e ad accettare comunemente quali siano i "valori" dell’esistenza e come vadano tra loro gerarchizzati, si configura una "cultura" secondo l’accezione che in questi ultimi decenni è andato sempre più imponendosi. E, a meno di ridurre il cristianesimo a pura esteriorità folcloristica o a mero fatto di coscienza individuale, sarà incontestabile che debba esistere ed essere pubblicamente proclamata una "cultura cristiana" in questo senso, cioè una "scala cristiana dei valori".

Qui bisogna dire che le comunità cristiane devono prepararsi ad affrontare a occhi aperti, senza chiusure indebite ma anche senza irenistiche ingenuità, le tensioni e gli inevitabili contrasti tra le diverse "culture" che di fatto convivono in una società pluralistica.

Ci rallegremo di ogni concordanza insperata e inattesa, e la onoreremo nei nostri propositi operativi e nei nostri atti. Ma più frequentemente dovremo registrare le dissonanze, facendo bene attenzione a non sacrificare mai la verità da cui siamo stati misericordiosamente raggiunti e illuminati, né a compromettere mai la nostra inalienabile identità.

E’ difficile e raro che convengano sulla stessa scala di valori coloro che affermano e coloro che negano un disegno divino all’origine delle cose; coloro che affermano e coloro che negano una vita eterna oltre la soglia della morte; coloro che affermano e coloro che negano l’esistenza di un mondo invisibile, di là dalla scena vistosa e labile di ciò che appare; coloro che credono e coloro che non credono nel Cristo crocifisso e risorto, Figlio unigenito del Dio vivente, Salvatore unico e necessario dell’universo, Signore della storia e dei cuori.

Noi non imponiamo a nessuno la nostra "cultura". Ma nemmeno possiamo tollerare che l’imposizione ideologica di una "cultura" estranea ci snaturi o ci impedisca di esistere e di crescere come popolo di Dio, redento dal sangue del Signore Gesù, secondo la visione delle cose che noi liberamente e razionalmente accogliamo nell’atto di fede.

Conclusione

Come si vede, il rapporto fede-cultura non è estrinseco e occasionale: è, in qualche modo, trascendentale, anche se è variamente attuato nel succedersi delle epoche storiche e nel variare delle situazioni.

La fede, restando fede, deve farsi "cultura": lo deve a se stessa, alla radicalità e alla totalità del rinnovamento che essa introduce nell’uomo e nell’intero universo. Essa non mortifica e non trascura nessuna delle positività autentiche che incontra nel suo dispiegarsi nel tempo e nel mondo; tutte anzi le assume, le purifica, le esalta, le trasfigura in una "cultura" originale e inequivocabile, mantenendo la sua tipicità e la sua irriducibilità: le assume, le purifica, le esalta, le trasfigura nella "cultura cristiana".


Brani tratti da: OMELIA NEL "TE DEUM" DI FINE ANNO

Venerdì 31 dicembre, ore 18.00, Basilica di San Petronio

(...) Un po’ più di saggezza di quanto l’umanità non abbia dimostrato in questi decenni, in particolare per quel che si riferisce alle norme fondamentali di comportamento, alla salvaguardia dell’istituto familiare, all’educazione delle nuove generazioni e in genere al rispetto della retta ragione. Ed è, questo, un auspicio accorato perché - come ha lasciato scritto Bonhoeffer prima di essere ucciso da miserabili che credevano di essere superuomini - "contro la stupidità siamo senza difesa".

E un po’ più di pietà, dopo tutto il sangue inutilmente versato nel Novecento, dopo le vite innocenti legalmente sacrificate sull’altare dell’egoismo, dopo gli spaventosi genocidi perpetrati dalle diverse ideologie anticristiane e quindi antiumane. Nessuna epoca della storia - quando la storia non sia infiorata di bugie - può essere giudicata più crudele, più oppressiva, più cruenta del secolo ventesimo; di quel secolo che pure era iniziato proponendo con laicistico candore la religione del progresso e il mito di una felicità terrestre universale.

La nostra attesa fiduciosa perciò è che le innegabili conquiste della scienza e della tecnica, nonché la più ampia diffusione del benessere economico e sociale, non vengano più attuate a spese di ciò che nella natura e nella dignità dell’uomo è essenziale e primario.

Che cosa augureremo poi a quanti nel battesimo sono stati consacrati al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo? Prima di tutto di riscoprire sul serio Gesù di Nazaret per quello che è: l’unigenito eterno di Dio, che nel grembo di Maria è diventato per sempre nostro fratello; il Signore della storia e dei cuori, che è il centro e il senso dell’unica nostra vita; la sola speranza vera e non deludente, in un mondo che di speranze vere e non deludenti non è in grado di offrirne a nessuno. E poiché è l’unico Salvatore di tutti, a tutti deve essere da noi annunciato e testimoniato con la franchezza del nostro dire e la coerenza del nostro operare.

Il secondo augurio che ci facciamo è di renderci conto della nostra fortuna di appartenere alla Chiesa Cattolica, la quale è il capolavoro di Dio: una realtà che riesce a essere santa e senza macchia pur essendo composta da noi peccatori. Essere membra vive del Corpo di Cristo deve tornare a costituire la ragione della nostra gioia più intensa e della nostra più motivata fierezza(...)


Brani tratti da: OMELIA NELLA SANTA MESSA CONCELEBRATA
IN OCCASIONE DELLA FESTA
"IL SEMINARIO REGIONALE COMPIE OTTANT'ANNI"

Venerdì 10 dicembre 1999, ore 11,30 - Aula Magna Seminario Regionale

(...) Il nostro tempo ha saputo dare all’uomo tanti ritrovati mirabili: per esempio, la velocità negli spostamenti, la diffusione domiciliare delle notizie, i prodigi dell’informatica, nuove sorgenti di suoni e di frastuoni, nuove inesauste fabbriche di chimere e di sogni. La sola cosa che non ha saputo dare all’uomo è proprio la speranza, la quale anzi è andata nel mondo sempre più affievolendosi. La speranza è merce che si va facendo rara sul mercato dei valori oggi emergenti.

Ma per fortuna la speranza si può ancora attingere qui, da ciò che è avvenuto nella Santa Casa di Nazaret. Di qui si irradia la fiduciosa certezza che c’è sempre per tutti noi, se non lo rifiutiamo, un aiuto contro tutte le difficoltà e tutte le insidie. (...)


Brani tratti da: OMELIA PRONUNCIATA AL CONVEGNO NAZIONALE

"PROGETTO CULTURALE, PASTORALE SOCIALE E DEL LAVORO E RUOLO DEL LAICATO"

PROMOSSO DALL'UFFICIO NAZIONALE PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO DELLA CEI
Venerdì 28 maggio - ore 12.00 - Pieve di Cento

(...) Ogni uomo che davvero crede, trova qui la sorgente di ogni vera e sostanziale uguaglianza: chi è interlocutore di Dio, non è subalterno a nessuno, e può trattare con ogni autorità terrena e con ogni potere nell'intima persuasione che nessuno è davvero più grande di lui, dal momento che Egli può rivolgersi a Dio chiamandolo padre.

Il sangue, il censo, la funzione sociale, la proprietà non determinano la rilevanza di un uomo, più di quanto non faccia la prerogativa che egli ha di entrare in una relazione personale col Dio vivo e vero.

Non può mai essere intimidito o umiliato chi sa di poter compiere tutto (tutto) nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre.

Chi ha Gesù come suo Signore, non riconosce e non accetta nessun altro padrone sulla terra: né il datore di lavoro, che non è un padrone dei lavoratori ma è un fratello e un collega nel servizio dell'unico Re; né lo Stato, che, a lasciarlo fare, finisce sempre coll'essere il più prepotente dei padroni; né i partiti, che, come tali, non hanno mai il diritto di comandare niente a nessuno; né l'ideologia, che non può pretendere da noi nessuna adorazione, ma anzi richiede di essere giudicata alla luce dell'eterna verità che ci è stata portaLa da Cristo (...)

(...) La convinzione della nostra precisa identità cristiana però non ci isola affatto all'interno dell'umanità che lavora; al contrario proprio essa ci consente di dialogare con tutti, conservando per tutte le persone quel rispetto che nasce dall'amore sincero per tutti gli appartenenti alla famiglia umana, specialmente quelli che condividono con noi la nostra quotidiana fatica.

Infatti il primo rispetto che dobbiamo avere verso i nostri interlocutori è quello di presentarci a loro con il nostro volto, con la chiarezza delle nostre idee, con la sincerità dei nostri intenti, senza mascherature o abnormi contaminazioni delle dottrine.

La nostra franchezza e la nostra coerenza ci permetteranno anche di offrire a tutti l'apporto specifico delle ricchezze spirituali che ci vengono dalla fede.

In primo luogo dobbiamo rianimare la speranza di questo nostro popolo.

Si avverte di questi tempi come una caduta di tensione verso qualunque traguardo, sicché il rischio è quello che si diventi tutti prigionieri di una squallida filosofia del presente, che mira solo ai vantaggi e ai piaceri immediati.

Siamo in un'epoca che per qualche aspetto potrebbe essere forse definita post-ideologica, nella quale le masse - pur restando largamente inquadrate in rigidi sistemi di aggregazione e di potere - non sembrano neppur più capaci degli erronei sogni e delle ingenue illusioni di un tempo, e così diventano (ed è una sorte più tragica) preda solo dell'ossessiva aspirazione al benessere effimero e dell'edonismo. (...)

(...) Non possiamo guardare senza perplessità alla così detta ‘globalizzazione dell’economia’, per cui il mercato e il potere finanziario non conoscono più confini, e danno l’impressione di non tollerare nessun influsso e nessun controllo esterno al proprio ambito. In tal modo capita sempre più spesso che la sorte delle imprese e l’avvenire dei lavoratori vengano decisi da potentati anonimi, lontani e invisibili.

Noi non sappiamo se davvero questa sia una realtà ineluttabile e fatale. Sappiamo però che è preoccupante.

Un’economia senza barriere non deve diventare anche un’economia senza regole, senza attenzione all’occupazione e alla disoccupazione, senza sollecitudine per i disagi delle persone e delle famiglie.

Il nostro auspicio è che la ‘globalizzazione’ non divenga il nome nuovo di ‘capitalismo selvaggio’: sarebbe un’altra sconfitta dell’uomo, immagine viva di Cristo.


Brani tratti da:OMELIA NELLA FESTA DI SAN GIUSEPPE ARTIGIANO
MESSA PER TUTTI I LAVORATORI CRISTIANI
Sabato 1° Maggio, ore 11,30, Cattedrale di San Pietro

(...) C’è da augurarsi che le malattie spirituali tipiche e più diffuse di quest’ultimo scorcio del Novecento – e cioè l’irenismo che tutto appiattisce, il relativismo cui è antipatica e insopportabile la verità, soprattutto le varie forme di religiosità naturalistica che si presentano come annunci di una "età nuova" e sono al contrario vecchie e ripetitive come le inclinazioni degli uomini ad autoingannarsi – non sottraggano il Figlio di Dio alla nostra attenzione adorante e al nostro amore appassionato ed esclusivo: sarebbe un pessimo modo di celebrare i duemila anni della sua venuta in mezzo a noi. Non solo però nella sua persona, anche nel suo "corpo" – nella sua "Sposa" che è la Chiesa – in questo vespro della civiltà cristiana Gesù corre il pericolo di essere travisato, incompreso, immotivatamente osteggiato. In effetti, quasi ogni giorno i mezzi di comunicazione cercano di mettere la Sposa del Signore in cattiva luce.

Questo rifiuto "culturale" della Chiesa vorrebbe dire, tra l’altro, derubare la nazione italiana di una delle radici storiche più indiscutibili della sua identità.

* * *

Ma in questo primo maggio, dedicato all’esaltazione del lavoro umano, è naturale percepire con sensibilità più pungente i rischi che nel nostro tempo Cristo corre nella sua immagine viva, che è l’uomo: l’uomo nella sua vita, nella sua intangibile dignità, nel suo primato su tutte le diverse realtà infraumane.

"Tutta la vita umana oggi corre seri pericoli. E non solo per il perdurare delle guerre e il diffondersi del ricorso agli attentati e alle stragi, come a mezzi di lotta ideologica; ma anche per l’eutanasia, le fantasie genetiche, la glorificazione delle devianze sessuali, la corrosione dell’istituto della famiglia, il permissivismo in tutti i campi, la droga. Si va inoltre logorando nella coscienza comune il concetto di uomo come persona inalienabile e sacra. Tanto che nella mentalità di molti si arriva ad assimilarlo agli animali, perfino moralmente e giuridicamente" (G. Biffi, Dal Congresso al Giubileo, Bologna 1998).

* * *

Nell’ambito più propriamente sociale, il primato dell’uomo sulle cose, sulle strutture burocratiche, sul complesso mondo dell’economia, stenta ancora ad affermarsi ed è almeno implicitamente disconosciuto nei fatti. E sembra di intuire che alcune difficoltà provengano da fenomeni eterogenei e antitetici.

Predomina ancora in Italia una forte mentalità statalista. Così, la centralizzazione, la complicazione e l’eccessiva volubilità delle leggi, i diritti di veto troppo ampiamente assegnati agli apparati e ai nuclei ideologici di potere, inceppano in misura indebita l’iniziativa dei singoli e dei gruppi, e fanno sì che molte legittime aspirazioni non vengano soddisfatte.

Il principio di sussidiarietà – chiaramente enunciato da Pio XI fin dal 1931 – attende ancora di essere recepito e diventare efficacemente operante. E non solo e non primariamente in riferimento alle varie amministrazioni pubbliche subalterne, ma anche e soprattutto in riferimento alle libere comunità di cittadini.

Posto davanti ai problemi emergenti, lo stato italiano né li sa affrontare adeguatamente in presa diretta, senza viluppi decisionali ed esecutivi, né consente di fatto che le intraprendenze non statali tentino di risolverli con il proprio coraggio e la propria energia. Come dice Gesù, a proposito del Regno dei cieli, agli scribi e ai farisei: "Non vi entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci" (cf. Mt 23, 13). (...)


Brani tratti da: INTERVENTO IN OCCASIONE DELLA
XIV GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTU'
SABATO 27 MARZO 99 - PALADOZZA

(...) Quando si tratta di noi, delle nostre idee, delle nostre iniziative, delle nostre organizzazioni, è giusto essere comprensivi, accoglienti, pronti a collaborare con tutti, capaci di apprezzare quanto di positivo si incontra nel pensiero e nell’agire degli altri, anche dei più lontani. Difatti Gesù ci ha detto: "Chi non è contro di voi, è per voi" (Lc 9,50).

Ma quando si tratta di lui, dell’Unigenito del Padre che è morto per noi ed è risorto, bisogna decidersi. Ce lo ha insegnato lui stesso con una delle sue frasi taglienti: "Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde" (Mt 12,30).

Ma la questione di Cristo appare oggi annebbiata dalla confusione che avvolge un po’ tutti: confusione religiosa, confusione ecclesiale, confusione ideologica.

C’è chi identifica il dovere del dialogo, della tolleranza, anzi della cortesia verso tutti con la rinuncia a cercare, a conoscere, a difendere la verità. C’è chi scambia la benevolenza che dobbiamo avere per tutti gli uomini e il desiderio che tutti arrivino alla salvezza, con la disponibilità comoda e deplorevole a lasciare che tutti restino tranquillamente nelle tenebre e nell’ombra della morte" (cf Lc 1,79).

E c’è chi, non volendo assumersi la responsabilità e l’impegno di decidere, si rifugia nel relativismo (che ritiene che tutte le convinzioni siano interscambiabili, come i posti sull’autobus) e si persuade che si possa scegliere a piacimento tra una religione e l’altra, e addirittura tra la verità e l’errore, così come si sceglie tra l’andare in vacanza al mare e l’andare in montagna.

Gesù ha detto: "Chi non è con me, è contro di me": dunque o gli si dice di sì o gli si dice di no. Noi questa sera col nostro camminare pacifico e lieto nel cuore della città, col nostro inneggiare al suo nome, coi nostri canti di gioia, gli abbiamo detto di sì davanti a tutti. Ci siamo spiritualmente associati alla folla di Gerusalemme che coi rami di palma e di ulivo ha osannato al Figlio di Davide; e l’abbiamo riconosciuto come colui che viene a noi nel nome dl Signore. (...)


Intervento al Convegno "La passione per l'unità": Vladimir Solo'vev (1853-1900)
Sabato 4 marzo 2000 - ore 10,30 - Sala di rappresentanza di Rolo Banca 1473
Vladimir Sergeevic Solovev: un profeta inascoltato

Vladimir Sergeevic Solovev è morto cento anni fa, il 31 luglio (13 agosto, secondo il nostro calendario gregoriano) dell’anno 1900.

E’ morto sul limitare del secolo XX: un secolo del quale egli, con singolare acutezza, aveva preannunciato le vicissitudini e i guai; un secolo che avrebbe però tragicamente contraddetto nei fatti e nelle ideologie dominanti i suoi più rilevanti e più originali insegnamenti. E’ stato dunque, il suo, un magistero profetico e al tempo stesso un magistero largamente inascoltato.

Un magistero profetico

Al tempo del grande filosofo russo, la mentalità più diffusa - nell’ottimismo spensierato della "belle époque" - prevedeva per l’umanità del secolo che stava per cominciare un avvenire sereno: sotto la guida e l’ispirazione della nuova religione del progresso e della solidarietà senza motivazioni trascendenti, i popoli avrebbero conosciuto un’epoca di prosperità, di pace, di giustizia, di sicurezza. Nel ballo Excelsior - una coreografia che negli ultimi anni del secolo XIX aveva avuto uno straordinario successo (e avrebbe poi dato il nome a una serie innumerevoli di teatri, di alberghi, di cinema) - questa nuova religione aveva trovato quasi una sua liturgia. Victor Hugo aveva profetizzato: "Questo secolo è stato grande, il prossimo secolo sarà felice".

Solovev invece non si lascia incantare da quel candore laicistico e anzi preannunzia con preveggente lucidità tutti i malanni che poi si sono avverati.

Già nel 1882, nel Secondo discorso sopra Dostoevskij, egli parrebbe aver presagito e anticipatamente condannato l’insipienza e l’atrocità del collettivismo tirannico, che qualche decennio dopo avrebbe afflitto la Russia e l’umanità:

"Il mondo - afferma - non deve essere salvato col ricorso alla forza…Ci si può figurare che gli uomini collaborino insieme a qualche grande compito, e che a esso riferiscano e sottomettano tutte le loro attività particolari; ma se questo compito è loro imposto, se esso rappresenta per loro qualcosa di fatale e di incombente,…allora, anche se tale unità abbracciasse tutta l’unanità, non sarà stata raggiunta l’umanità universale, ma si avrà solo un enorme ‘formicaio’ " (Edizione ‘La Casa di Matriona’, pp. 65-66); quel ‘formicaio’ che in effetti sarebbe stato poi attuato dall’ideologia ottusa e impietosa di Lenin e di Stalin.

Nell’ultima pubblicazione - I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, opera compiuta la domenica di Pasqua del 1900 - è impressionante rilevare la chiarezza con cui Solovev prevede che il secolo XX sarà "l’epoca delle ultime grandi guerre, delle discordie intestine e delle rivoluzioni" (Edizione Marietti p.184). Dopo di che - egli dice - tutto sarà pronto perché perda di significato "la vecchia struttura in nazioni separate e quasi ovunque scompaiano gli ultimi resti delle antiche istituzioni monarchiche" (p. 188). Si arriverà così alla "Unione degli Stati Uniti d’Europa" (p. 195).

Soprattutto è stupefacente la perspicacia con cui descrive la grande crisi che colpirà il cristianesimo negli ultimi decenni del Novecento.

Egli la raffigura nella icona dell’Anticristo, personaggio affascinante che riuscirà a influenzare e a condizionare un po’ tutti. In lui, come qui è presentato, non è difficile ravvisare l’emblema, quasi l’ipostatizzazione, della religiosità confusa e ambigua di questi nostri anni: egli - dice Solovev - sarà un "convinto spiritualista", un ammirevole filantropo, un pacifista impegnato e solerte, un vegetariano osservante, un animalista determinato e attivo.

Sarà, tra l’altro, anche un esperto esegeta: la sua cultura biblica gli propizierà addirittura una laurea "honoris causa" della facoltà di Tubinga. Soprattutto, si dimostrerà un eccellente ecumenista, capace di dialogare "con parole piene di dolcezza, saggezza ed eloquenza" (p. 211).

Nei confronti di Cristo non avrà "un’ostilità di principio" (p. 190); anzi ne apprezzerà l’altissimo insegnamento. Ma non potrà sopportarne - e perciò la censurerà - la sua assoluta "unicità" (p. 190); e dunque non si rassegnerà ad ammettere e a proclamare che egli sia risorto e oggi vivo.

Si delinea qui, come si vede, e viene criticato, un cristianesimo dei "valori", delle "aperture" e del "dialogo", dove pare che resti poco posto alla persona del Figlio di Dio crocifisso per noi e risorto, e all’evento salvifico.

Abbiamo di che riflettere. La militanza di fede ridotta ad azione umanitaria e genericamente culturale; il messaggio evangelico identificato nel confronto irenico con tutte le filosofie e con tutte le religioni; la Chiesa di Dio scambiata per un’organizzazione di promozione sociale: siamo sicuri che Solovev non abbia davvero previsto ciò che è effettivamente avvenuto, e che non sia proprio questa oggi l’insidia più pericolosa per la "nazione santa" redenta dal sangue di Cristo? E’ un interrogativo inquietante e non dovrebbe essere eluso.

Un magistero inascoltato

Solovev ha capito come nessun altro il secolo ventesimo, ma il secolo ventesimo non ha capito lui.

Non è che gli siano mancati i riconoscimenti. La qualifica di massimo filosofo russo non gli viene di solito contestata. Von Balthasar ritiene il suo pensiero "la più universale creazione speculativa dell’epoca moderna" (Gloria III, p. 263) e arriva perfino a collocarlo sullo stesso piano di Tommaso d’Aquino.

Ma è innegabile che il secolo ventesimo, nel suo complesso, non gli ha prestato alcuna attenzione e anzi si è puntigliosamente mosso in senso opposto a quello da lui indicato.

Sono lontanissimi dalla visione solovievana della realtà gli atteggiamenti mentali oggi prevalenti, anche in molti cristiani ecclesialmente impegnati e acculturati. Tra gli altri, tanto per esemplificare:

- l’individualismo egoistico, che sta sempre più segnando di sé l’evoluzione del nostro costume e delle nostre leggi;

- il soggettivismo morale, che induce a ritenere che sia lecito e perfino lodevole assumere in campo legislativo e politico posizioni differenziati dalla norma di comportamento alla quale personalmente ci si attiene;

- il pacifismo e la non-violenza, di matrice tolstoiana, confusi con gli ideali evangelici di pace e di fraternità, così che poi si finisce coll‘arrendersi alla prepotenza e si lasciano senza difesa i deboli e gli onesti;

- l’estrinsecismo teologico che, per timore di essere tacciato di integrismo, dimentica l’unità del piano di Dio, rinuncia a irradiare la verità divina in tutti i campi, abdica a ogni impegno di coerenza cristiana.

In special modo il secolo ventesimo - nei suoi percorsi e nei suoi esiti sociali, politici, culturali - ha contraddetto clamorosamente la grande costruzione morale di Solovev.

Egli aveva individuato i postulati etici fondamentali in una triplice primordiale esperienza, nativamente presente in ogni uomo: vale a dire nel pudore, nella pietà verso gli altri, nel sentimento religioso.

Ebbene, il Novecento - dopo una rivoluzione sessuale egoistica e senza saggezza - è approdato a traguardi di permissivismo, di ostentata volgarità e di pubblica spudoratezza, che sembra non aver paragoni adeguati nella vicenda umana.

E’ stato poi il secolo più oppressivo e più insanguinato della storia, privo di rispetto per la vita umana e privo di misericordia. Non possiamo certo dimenticare l’orrore dello sterminio degli ebrei, che non sarà mai esecrato abbastanza. Ma sarà bene ricordare che non è stato il solo: nessuno ricorda il genocidio degli Armeni a cavallo della prima guerra mondiale; nessuno commemora le decine e decine di milioni uccisi sotto il regime sovietico; nessuno si avventura a fare il conto delle vittime sacrificate inutilmente nelle varie parti del mondo all’utopia comunista.

Quanto al sentimento religioso, durante il secolo ventesimo in oriente è stato per la prima volta proposto e imposto su una vasta parte di umanità l’ateismo di stato, mentre nell’occidente secolarizzato si è diffuso un ateismo edonistico e libertario, fino ad arrivare all’idea grottesca della "morte di Dio".

In conclusione, Solovev è stato indubbiamente un profeta e un maestro; ma un maestro, per così dire, inattuale. Ed è questa, paradossalmente la ragione della sua grandezza e della sua preziosità per il nostro tempo.

Appassionato difensore dell’uomo e allergico a ogni filantropia; apostolo infaticabile della pace e avversario del pacifismo; propugnatore dell’unità tra i cristiani e critico di ogni irenismo; innamorato della natura e lontanissimo dalle odierne infatuazioni ecologiche: in una parola, amico della verità e nemico dell’ideologia. Proprio di guide come lui abbiamo oggi un estremo bisogno.

 



Cardinale Biffi ed immigrazione (tratto da: www.forzanuova.org)

L'autorità episcopale argine della dissoluzione civile. Lo sconvolto "don"Vitaliano Della Sala, cappellano leoncavallino e grottesco esponente dell'anarchismo cattocomunista, si é rivolto alla Procura di Bologna "perché accerti se le pubbliche dichiarazioni di Biffi (che sarebbe poi S.E. il Cardinale Biffi) non si configurino come incitamento alla discriminazione razziale e religiosa". Tale fatto, oltre che essere l'ennesimo esempio di come i gruppi della "sinistra antagonista" non siano altro che gli scherani del sistema liberalcapitalista, dimostra anche la devastante pericolosità della "legge Mancino", brutale strumento pseudogiuridico voluto da ben note e identificabili lobby quale deterrente per ogni azione (o anche, semplicemente, enunciazione verbale) tesa alla difesa dell'identità nazionale, culturale e religiosa della Patria. È pertanto, trova ancora maggiore giustificazione la validità della scelta, compiuta da Forza Nuova, di inserire fra gli otto punti del suo programma l'abolizione di quella normativa subdola e liberticida. Ma l'episodio citato all'inizio è anche la rinnovata dimostrazione dell'assoluta ignoranza e della totale perdita di raziocinio e buon senso da parte della sinistra, tanto atea e laicista quanto (pseudo) cristiana. La cabarettistica affermazione di "don" Vitaliano ("come cristiano non posso tacere") manifesta ciò che per costui ed i suoi simili è il Cristianesimo: una sorta di melassa buonista, tanto superficiale quanto empia.
San Tommaso e la sua dottrina politica? Boh! Sant'Agostino e la "tranquillità dell'ordine"? Mai sentiti nominare! I loro maestri sono Fo e Grillini, il loro Dio è quello "malato" di Veltroni, il loro catechismo è il copione di "Totò che visse due volte", la loro eucarestia sono le canne di don Gallo. Da parte laicista, al contrario, si grida al "fondamentalismo" del Card. Biffi, integralista, oscurantista e intollerante; e si invoca la "laicità" dello stato. Tuttavia, è proprio qui che va in corto circuito la protesta "politically correct". Infatti, l'Arcivescovo bolognese non ha fatto altro che difendere la laicità dello Stato, assente nell’Islam data la completa fusione del piano naturale con quello sovrannaturale. Ciò che egli ha denunciato è il pericolo di un'invasione da parte di una cultura confliggente con la nostra tradizione civile, sociale e giuridica e fondata su principî ed istituti (si pensi alla famiglia poligamica, al diritto fondato non già sulla legge naturale - base culturale e giuridica della civiltà occidentale - bensì su quella coranica) incompatibili con uno stato laico, fondato sulla giustizia e l'ordine.
Le isteriche e faziose strida di intellettuali e politici "perbene" dimenticano che, in caso di islamizzazione della nostra terra, la tanto amata laicità dello stato (in realtà, ciò che essi vogliono è il laicismo cioè l'ateismo di stato!) finirebbe in soffitta, così come l'altrettanto agognata "società multiculturale", da costoro teorizzata, sarebbe ugualmente impossibile. La realtà è che proprio tale autentica smania paranoica (la gioiosa, variegata, arlecchinesca società multiculturale, multirazziale, multireligiosa, ecc.) costituisce l'ultima frontiera dell'utopismo, dopo la caduta delle ideologie progressiste. Alleata di fatto alle oligarchie mondialiste (esse sì consapevoli della vera portata del progetto dissolutorio globalista), l'utopia neocomunista si balocca coi suoi allucinati sogni buonisti, rimanendo cieca e sorda rispetto all'esperienza di ciò che, nel concreto, il miscuglio da essa agognato inevitabilmente determina. Tale caotico esito è invece evidentemente ben chiaro agli occhi lungimiranti del Cardinale Biffi. Con la sua coraggiosa predicazione, egli ha assolto pienamente il mandato affidatogli, difendendo, con una ferma messa in guardia, il gregge di cui è pastore.
Le parole del’alto prelato sono il frutto di un’antica memoria storica e, dunque, costituiscono un prezioso insegnamento. Ció che egli ha denunciato - l'ignavia e l'assenza, se non addirittura la connivenza, dell'autorità statale di fronte al pericolo dell'invasione musulmana - ci riporta a una situazione che l'Italia conobbe all'indomani della caduta dell'Impero Romano d'Occidente. Allora la Chiesa si fece carico dei bisogni anche materiali delle popolazioni, assumendo, vista la latitanza di un efficace potere temporale, la gestione civile e la difesa delle città. Fra il VI e il VII secolo, vista la crescente inettitudine delle autorità civili bizantine, furono i vescovi a ergersi contro le orde dei barbari e a far fronte alle necessità dei loro concittadini.
Incredibilmente, dopo due secoli di rivoluzione anticattolica, oggi l'Italia e la Chiesa cattolica (se vorrà essere degna di tal nome) si apprestano a vivere uno scenario simile: l’autorità della Repubblica italiana è ormai priva di sostanziale legittimazione, poiché in conflitto con la legge naturale (vedi, in particolare, la legalizzazione dell'infanticidio e, in generale, la sottomissione alle esigenze del capitalismo apolide) e, di fatto, sempre più impotente e latitante. Nuovi e vecchi barbari stanno cambiando il volto delle nostre città, occupando il territorio e provocando rilevanti danni sociali.
All'orizzonte, nuove sciagure economiche ed emergenze sociali si affacciano minacciose. Se, come pare, c'è in Italia qualche religioso che voglia e sappia ripetere le gesta di Gregorio Magno (che solo affrontò la barbarie longobarda, ergendosi, quale "console di Dio", a detentore del potere anche civile), è giunta l'ora che si alzi e lo dichiari: il popolo saprà allora a chi rivolgersi!